Accade a Roma, e forse in tante altre città: c’è una vita urbana visibile, accelerata, o piuttosto centrifugata, e poi ci sono gli interstizi, che ospitano altri mondi e altri ritmi, in cui sopravvivono tradizioni e mestieri altrove perduti. Il docufilm di Nel tempo di Cesare, trent’anni con i fiumaroli di Angelo Loy racconta le vicende di due famiglie di pescatori di anguille – “i rosci” e “i ciccioni” – che da generazioni vivono e lavorano sul Tevere, contendendosi il controllo del fiume. Angelo Loy, regista di documentari sociali, tra cui Pinocchio nero con Marco Baliani e un gruppo di ragazzi di strada di Nairobi, Una scuola italiana e Luoghi comuni, ha incontrato Cesare e gli altri pescatori per la prima volta nel 1995. Per quasi trent’anni è andato a trovarli, condividendo con loro il tempo sul fiume, i giorni di festa e i momenti di sconforto, documentando le vite e gli intrecci tra le due famiglie da una sponda all’altra del Tevere. Nel tempo di Cesare è un viaggio alla scoperta della cosiddetta “cultura fiumarola”, una parte di Roma nascosta e sorprendente, un mondo che oggi appare quasi mitologico, ma che resiste e vive secondo il ciclo del fiume, lontano dalle traiettorie cittadine e sconosciuto agli stessi romani. A gennaio nelle sale: il 27 a Milano, al Cinema Anteo; il 28 a Torino, al Cinema Massimo; il 29 a Roma, alla Sala Troisi.
Angelo, come hai conosciuto “i rosci” e “i ciccioni”?
Era il 1995, studiavo biologia e per la tesi di dottorato mi servivano campioni di anguille, così sono andato al Tevere e sono entrato in contatto con queste due famiglie, Cesare e Alfredo, due fratelli detti “i rosci”, e Franco e Nando, e la madre Sor Irene, detti “i ciccioni”. Erano rivali e vivevano sulle sponde opposte del fiume. Mi hanno subito accolto. Andavo a trovarli con una videocamera e riprendevo. Così per un paio d’anni, poi sono partito per una specializzazione a New York. Ero convinto che avrei fatto il biologo, invece sono diventato un regista, e proprio grazie ai “fiumaroli”.
Com’è andata?
A New York avevo un amico scultore, Vincenzo Amato, emigrato da Palermo come si partiva allora dall’Italia, con le scatole di cartone. Viveva in una scuola abbandonata di Manhattan, dormiva su una tavola di legno sistemata sopra ai bagni. All’inizio andavo a trovarlo il venerdì sera, poi sempre più spesso. Da lui ho conosciuto Emanuele Crialese, si è creato un gruppo e nel primo film di Emanuele, Once we were strangers, Vincenzo ha recitato da protagonista (come poi in quasi tutti i suoi film), io facevo il backstage. Nello stesso periodo ho incontrato la documentarista Danae Elon e le ho raccontato dei “fiumaroli”. Il mio iniziale interesse è diventata una passione, anzi un’ossessione, e ho deciso di tornare in Italia per raccontare la loro storia. Dal ‘99 al 2002 ho fatto nuove riprese, Danae ha curato la fotografia a pellicola. Ne è venuto fuori un montato di 36 minuti. A quel punto la cosa per me era esaurita e sono partito per l’Africa. Non avevo idea che dieci anni dopo sarei tornato al fiume.
Cosa ti ha riportato al Tevere?
Nel 2012 ho ricevuto un sms di Franco, uno dei “ciccioni”. Diceva: “Amico vieni, porta videocamera”. Negli anni erano successe tante cose. Franco si era ammalato, il fratello, Nando, era morto e l’anziana sor Irene era migrata sull’altra sponda. Sopita la faida, adesso erano gli antichi rivali, i “rosci”, a prendersi cura di lei. Al tempo del messaggio, Franco si era aggravato e mi stava chiedendo di continuare a raccontare, così sono tornato per seguirlo fino alla sua morte.
Cosa significa fare riprese per quasi trent’anni?
Il tempo in questo film è centrale. C’è il tempo del fiume, ci sono decenni di lavoro, e c’è la costruzione di una narrazione. Non è un documentario antropologico sui mestieri che vanno scomparendo, né un racconto agiografico sulla pesca sul Tevere. Ho voluto raccontare il flusso della vita di queste persone, cogliendo i momenti che potevano essere snodi narrativi. Sul fiume non succede mai niente, ogni giorno è uguale al precedente, quindi ho dovuto lavorare sul lungo periodo per catturare i piccoli cambiamenti che tutti insieme creano una storia. Il pescatore e il documentarista hanno questo in comune: l’allenamento all’attesa. C’è anche un’evoluzione nelle riprese: all’inizio c’è più freschezza, meno necessità formale, ma anche più distanza tra me e loro, un po’ di pudore, forse. Man mano che si crea la fiducia, la telecamera scompare, tra di noi siamo più diretti, si lavora insieme. Per me è stato un film di formazione, in tutti i sensi.
Cosa intendi?
Intanto, è stato grazie all’incontro con i “fiumaroli” che sono diventato regista di documentari sociali. Mi interessa entrare in contatto con mondi che non sono il mio, creare le condizioni perché chi non ha voce possa raccontarsi da sé. È questo che ho fatto anche nei tanti anni di lavoro in Africa con i ragazzi di strada. Poi quando è arrivato quel messaggio di Franco ho capito che era ora di tornare al punto di origine, come fanno le anguille quando tornano al mare dei Sargassi. Ancora oggi vado a trovare Cesare e gli abitanti del fiume, è un luogo che mi riconcilia con la mia città, che per molti versi soffro e mi affatica. Questo lavoro mi ha posto davanti a questioni umane e professionali. Per esempio, il documentario presuppone che si restituisca una verità che di fatto non esiste: tutto è manipolazione, dalla scelta dell’inquadratura al modo di interagire, al montaggio. Quello che conta è lo scopo ultimo. Il mio era creare un lavoro in cui sia io che i “fiumaroli” ci riconoscessimo. Anche il montaggio è stato complicato, più volte ho temuto che questo film esistesse solo nella mia testa, finché non ho incontrato Shervin Zinouzi, che è riuscito a restituire quello che volevo raccontare: la vita di queste persone e le emozioni della “cultura fiumarola”.
Cos’è la “cultura fiumarola”?
Cesare direbbe che è un modo di vivere. Queste persone vivono in simbiosi col fiume, in un rapporto di prelievo, rispetto, amore. Sono gli eredi di chi fino agli anni Sessanta, prima del grande inquinamento, viveva il Tevere come la zona vacanziera più prossima alla città, ma sono anche professionisti di un’attività che si svolge sul fiume. La loro è una cultura popolare, molto romana, una tradizione culinaria e di accoglienza, un certo modo di fare festa. Oggi è una bolla, sopravvissuta perché marginale, trascurata. All’inizio loro stessi erano sorpresi che io mi interessassi a loro, che volessi entrare nel loro mondo e raccontarlo. Nel tempo però mi sono conquistato anch’io il titolo di “fiumarolo”, con tanto di cerimonia e attestato. Me l’hanno consegnato gli amici e i parenti di Cesare. Eccolo qui, c’è scritto: «La comunità fiumarola/Per la disponibilità e la simpatia/Per la grande passione dimostrata nel campo della Vita Tiberina/Vista la professionalità acquisita di regista/In nome della fabbrica dell’appetito/ Conferisce ad Angelo Loy, nato a Roma il 6 ottobre 1966,
Il titolo di “Fiumarolo”».