Francesco Valle era un uomo di “grande forza e bontà”, dice la famiglia. Anche gli atti giudiziari certificano la sua forza: era il capo della ‘ndrangheta tra Cisliano e Vigevano, condannato a oltre vent’anni per mafia e usura. I suoi affari ruotavano attorno a minacce, racket e videopoker, con la sua rete familiare a garantire il controllo del territorio. Un uomo d’onore, nel senso più stretto del termine. Onore che non ha impedito di schiacciare commercianti e imprenditori sotto il peso dei debiti imposti con la pistola sul tavolo.
Eppure, la memoria pubblica ha una curiosa amnesia selettiva. Muore un boss e la narrazione si ripulisce, le condanne diventano parentesi sbiadite, i necrologi scivolano nel ricordo privato e rispettoso. Non stupisce che i figli vogliano preservare l’immagine del patriarca, ma quando la mafia viene raccontata con le parole del mito, allora siamo di fronte a un problema più grande. Perché la forza della criminalità organizzata non sta solo nei soldi e nella violenza, ma nell’aura che si costruisce intorno.
Un “esempio di amore”. Lo hanno detto davvero. La vera domanda è: amore per chi? Per le vittime dell’usura? Per gli imprenditori costretti a versare il pizzo? Per gli affiliati che rispettavano il codice del silenzio? L’ipocrisia si nasconde nel linguaggio. I boss non muoiono mai solo come criminali, ma sempre come uomini di famiglia, benefattori, “grandi saggi”. La ‘ndrangheta lo sa bene: si tramanda nel sangue e nelle parole. E le parole, come sempre, funzionano più del piombo.
Buon giovedì.