Con il sostegno di Trump, Israele attacca e criminalizza qualsiasi tipo di resistenza: armata, non-violenta e internazionale

Tuttə ci siamo chiestə come mai un accordo nella sostanza identico a quello già proposto da Biden nel maggio del 2024 sia stato accettato solo a metà gennaio 2025 da Netanyahu, a pochi giorni dall’insediamento del presidente Trump. Nessunə confidava nei sentimenti pacifisti di Donald Trump, così come nessunə ha creduto che la decisione potesse essere stata influenzata in alcun modo dalla volontà dell’amministrazione Usa di ridurre l’approvvigionamento militare o i fondi alla macchina bellica israeliana.

Alla ratifica dell’accordo sul cessate il fuoco sono sì seguite le dimissioni di Ben Gvir, ma non quelle di Smotrich, esponenti della politica israeliana ugualmente noti per le loro posizioni razziste, omofobe e genocidarie nei confronti della popolazione di Gaza. Già dal primo giorno di cessate il fuoco, la risposta a questa domanda è apparsa subito chiara: Trump ha probabilmente offerto a Netanyahu la graduale annessione della Cisgiordania e la promessa di pulizia etnica della Striscia. Dalla mattina di martedì, infatti, sono arrivate notizie di arresti di massa tra Betlemme e Hebron (Al-Khalil), ma soprattutto di operazioni su vasta scala a Jenin, area A, dove, secondo gli accordi di Oslo, i militari israeliani non avrebbero accesso né giurisdizione.

Ad oggi, sono chiusi quasi 763 dei 898 checkpoint militari presenti in Cisgiordania. I palestinesi che abitano in quest’area non possono muoversi per andare a lavorare, ricevere cure mediche o andare a scuola, tutte attività già altamente compromesse dopo il 7 ottobre, come documentato da diversi giornalisti e giornaliste sul campo. Nelle prime 72 ore di tregua con Gaza, nei territori occupati della Cisgiordania almeno 15 palestinesi sono stati uccisi, 13 dei quali a Jenin, incluso un ragazzo di 16 anni e una bambina di due, colpita alla testa da un cecchino mentre era in braccio alla madre, incinta del suo secondogenito. Contatti diretti da Jenin hanno condiviso video di demolizioni e uccisioni sommarie in mezzo alle strade. Dalle immagini che arrivano, sembra non resti più nulla del campo profughi di Jenin. Lo stesso sta avvenendo a Tulkarem e nei dintorni di Hebron.

Nel frattempo, centinaia di palestinesi sono statə costrettə a lasciare le loro case sotto la minaccia delle armi da parte dei soldati israeliani, mentre decine di persone, soprattutto giovani, sono state arrestate in modo arbitrario durante la notte. Le celle che si liberano con gli scambi di prigionierə, all’interno della cornice del cessate il fuoco, si riempiono immediatamente di nuovi detenuti. La Cisgiordania è diventata, infatti, una grande prigione, con coloni israeliani armati, forze di polizia, l’esercito e i servizi segreti, che conducono operazioni letali su larga scala.

Lo stesso nome dato a quest’ultima operazione su Jenin rimanda a un immaginario ben preciso: “Iron Wall”. The Iron Wall (Il Muro di Ferro) è infatti il lavoro seminale dell’intellettuale sionista Vladimir Jabotinsky. L’argomentazione centrale di Jabotinsky in questo volume era proprio che gli ebrei sarebbero riusciti a raggiungere pace e sicurezza in Palestina solo attraverso la creazione di una presenza militare forte e inflessibile, che scoraggiasse qualsiasi negoziazione o accordo con la popolazione araba autoctona. Scriveva: «Non può esserci alcun accordo volontario tra noi e gli arabi palestinesi. Le popolazioni native, civilizzate o meno, hanno sempre opposto una resistenza ostinata ai colonizzatori».
L’applicazione di questa dottrina è lampante nelle continue operazioni militari a Gaza, in Cisgiordania e in aree come Jenin.

In un probabile progetto di annessione della Cisgiordania, con il benestare dell’amministrazione statunitense, i tentativi di resistenza a Jenin vanno necessariamente neutralizzati seguendo la dottrina dell’Iron Wall. Anche quanto successo alla fine del 2024, sempre a Jenin, si inserisce in questo quadro. A metà dicembre, infatti, è stato il turno delle forze di sicurezza dell’Autorità Palestinese di tentare un primo indebolimento delle sacche di resistenza del campo. In questa occasione, i titoli dei giornali israeliani esprimevano grande soddisfazione nel vedere l’Autorità Palestinese che “finalmente” gestiva i propri problemi interni.

L’opinione pubblica in Cisgiordania, in quei giorni, era però divisa rispetto a quanto stava accadendo. Pochi giorni dopo l’inizio dell’operazione a Jenin, un gruppo di studenti di una scuola di Ramallah, giunti in classe dove insegna un’amica palestinese, fremeva per discutere con noi i recenti sviluppi nel campo profughi di Jenin. Le opinioni degli studenti erano profondamente polarizzate. Da un lato, i giovani sostenitori dell’Autorità palestinese dipingevano le operazioni come necessarie per evitare che la Cisgiordania diventasse “un’altra Gaza”. Dall’altro, un altro gruppo di studenti sosteneva che i combattenti di Jenin stessero lottando per la libertà di tutta la Palestina. Alcune studentesse, sorelle di guerriglieri, insistevano poi sul fatto che la liberazione della Palestina sarebbe dovuta necessariamente passare per la Jihad.
Secondo fonti interne palestinesi, le forze dell’Autorità palestinese si sono unite anche alle operazioni in corso a Jenin a metà gennaio. Pare evidente che, come sottolinea Patrick Wolfe nella sua definizione di colonialismo d’insediamento, dove non arriva l’assimilazione, è necessario intervenire con l’eliminazione dei nativi.
Dall’altro lato della Cisgiordania, a sud, sono invece i coloni a dare fuoco alle case e alle automobili dei villaggi palestinesi nella zona di addestramento militare di Masafer Yatta. Qui, le violenze dei coloni e dell’esercito sono all’ordine del giorno, come raccontato anche nel documentario candidato agli Oscar No Other Land.

Ali Awad, attivista di Youth of Sumud, un’organizzazione palestinese che promuove la resistenza non violenta contro le demolizioni e gli sfratti nell’area di Masafer Yatta, è stato vittima di un attacco da parte dei coloni a Tuba, avvenuto domenica 26 gennaio. In questo attacco, la sua auto, l’unica del villaggio, è stata data alle fiamme. Tuba, senza quest’auto è altrimenti completamente isolata a causa del divieto imposto da Israele di costruire strade nella zona. Ali, insieme ad altri attivisti locali, pratica la resistenza non violenta ed è stato in Italia diverse volte per raccontare l’esperienza di lotta di quel fazzoletto di Palestina.
Giovedì 30 gennaio, infine, abbiamo assistito anche all’arresto di Luisa Morgantini, già vicepresidente del Parlamento europeo ed europarlamentare indipendente eletta con Rifondazione comunista, attualmente alla guida di AssoPace Palestina. Si trovava proprio a Tuba per portare solidarietà a quelle comunità colpite dalla violenza dei coloni israeliani solo pochi giorni prima.

L’esercito israeliano ha trattenuto Morgantini insieme a Roberto Bongiorni, giornalista del Sole 24 Ore, che la stava accompagnando per un reportage sulle colonie israeliane. Sono stati fermati anche Mohammed Barakat, guida palestinese di Gerusalemme, e Sami Hureini, attivista del movimento Youth of Sumud. Quest’ultimo è stato rilasciato nella tarda serata di giovedì 30 gennaio, senza alcuna accusa formale, se non quella di aver violato una presunta “zona militare” – un’area palestinese dichiarata zona di addestramento militare negli anni 80 da Israele in una manovra del tutto unilaterale e contraria al diritto internazionale.

Sempre pochi giorni dopo il cessate il fuoco sono stati resi noti anche i piani dell’amministrazione statunitense su Gaza. Il presidente degli Stati Uniti, Donald Trump, ha proposto di trasferire i palestinesi dalla Striscia di Gaza verso paesi vicini come l’Egitto e la Giordania, suggerendo di «ripulire» il territorio per costruire resorts e stabilimenti balneari. In questo contesto, il presidente nordamericano ha anche dichiarato che i palestinesi non avranno diritto di tornare nella Striscia di Gaza.

Israele attacca e criminalizza qualsiasi tipo di resistenza: armata, non-violenta e internazionale. A Jenin interviene l’esercito con il pretesto della lotta al terrorismo, a Gaza si parla chiaramente di pulizia etnica mentre nei luoghi dove si pratica la non violenza come Tuba e At-tuwani entrano in azione i coloni.
La matrice di questa violenza e repressione è sempre la stessa, cambia solo chi la mette in atto.

L’autrice: Federica Stagni è ricercatrice al dipartimento di Scienze sociali e politiche alla Scuola normale superiore di Pisa