La riforma Nordio è diretta a scardinare in un solo colpo i principi della separazione dei poteri, dell’uguaglianza dei cittadini di fronte alla legge e dell’autonomia e indipendenza della magistratura

Ci sono obiettivi inconfessabili dietro la cosiddetta “riforma della giustizia”, pomposa e ingannevole espressione usata dalla propaganda governativa nell’indicare il Ddl costituzionale attualmente in discussione al Senato; discussione del tutto inesistente in prima lettura alla Camera, dove il provvedimento lo scorso gennaio è passato intonso alla votazione dei deputati, senza alcuna possibilità di emendarne financo le virgole.
L’uso fraudolento delle parole è una costante dell’esecutivo Meloni.
Il Ddl diretto a scardinare in un solo colpo i principi della separazione dei poteri, dell’uguaglianza dei cittadini di fronte alla legge e dell’autonomia e indipendenza della magistratura è denominato “Norme in materia di ordinamento giurisdizionale e di istituzione della Corte disciplinare”; un titolo di poco aiuto alla comprensione e dunque la traduzione ad uso dell’opinione pubblica è diventata “separazione delle carriere”, cui seguono i seguenti corollari: i pubblici ministeri e i giudici vanno separati in due diversi ordini, ognuno con il suo Csm, entrambi – unico momento di apparente unità – sottoposti ad un’Alta Corte che ne disciplina i comportamenti.
Il cittadino si domanda: perché separare le carriere dei magistrati?
Questa, in prima battuta, è stata la risposta dei promotori: si realizzeranno efficienza della giustizia, rapidità dei giudizi, certezza della pena e a seguire un profluvio di più o meno alti concetti che tuttavia pare non abbiano convincente presa tra il pubblico.
Anche il più disinformato dei cittadini, infatti, cercato invano il legame logico tra la separazione delle carriere in magistratura e l’efficienza della macchina burocratica, sommessamente potrebbe suggerire che, senza scomodare la Costituzione, sia sufficiente fornire mezzi, strumenti e personale necessari per riavviare il settore Giustizia inceppato da anni, per ciò solo incapace di dare risposte alla domanda di giustizia.
Visti i rischi, la propaganda governativa ha confezionato una seconda risposta, apparentemente più raffinata, se non altro per acrobazia discorsiva: con la riforma cesserà il condizionamento del giudice da parte del pubblico ministero, avrà fine la sottomissione del primo al volere del secondo nel momento della decisione, che così realmente svolgerà funzione di organo terzo e imparziale nel solco del principio del “giusto processo” tra parti uguali (Pm e imputato), unica garanzia di eguaglianza per i cittadini nel perseguimento di una giustizia più giusta.
Un postulato impegnativo. Che però, tradotto con esempi concreti, non brilla per chiarezza: in difesa di questa “riforma” si è detto che verranno cancellati i sospetti sulla innaturale “comunanza” tra Pm e giudice di un qualunque tribunale, avvezzi tra un’udienza e l’altra a consumare insieme un caffè al bar sotto il Palazzo di giustizia; si è detto che anche la composizione delle aule di Cassazione, dove la figura del procuratore generale, collocato su scranno elevato rispetto alla difesa e quasi affiancato al collegio giudicante, sia sinonimo della suddetta innaturale “comunanza”.
Anche il più informato dei cittadini potrebbe a questo punto provare un senso di disorientamento: in che modo il Pm condiziona il giudice? Il processo penale in Italia si svolge con giudici sottomessi alla volontà dei Pm? In concreto, come vanno separati? E cosa cambierebbe in termini di garanzia per il cittadino?
Di fronte a risposte indimostrabili, disinformazione e disorientamento rimangono: è proprio ciò a cui mira il governo della destra che, non a caso, definisce epocale questa “riforma”.
La Costituzione del nostro Paese, unico esempio nell’Occidente democratico, pone a garanzia dell’eguaglianza dei diritti dei cittadini l’indipendenza e l’autonomia della magistratura: è il principio dell’unità della giurisdizione a cui appartengono l’organo inquirente e l’organo giudicante, formati nella stessa cultura che vuole la magistratura soggetta soltanto alla legge, non ad altri poteri.
Pm e giudice hanno lo stesso compito: accertare la verità. Il Pm, che non è più l’organo inquisitorio di epoca anteriore al 1989, ha il dovere di acquisire anche gli elementi di prova a favore dell’indagato e non può tacere al giudice l’esistenza di fatti a favore dell’imputato: è l’accusa che – in autonomia e indipendenza – deve ricercare a 360° ogni elemento necessario a stabilire se esercitare l’azione penale.
L’uguaglianza delle “parti” nel processo è uno specchietto per le allodole. Accusa pubblica e difesa dell’imputato non difendono gli stessi interessi: il PM è chiamato a tutelare l’interesse pubblico, incluso quello della vittima del reato – figura pervicacemente dimenticata dalla propaganda governativa; la difesa dell’imputato tutela l’interesse del privato cittadino che assiste. La Costituzione è esplicita, non parla di parti uguali ma di parità delle parti nel contraddittorio avanti un Giudice terzo e imparziale.
E’ questi a garantire l’eguaglianza di tutti i cittadini di fronte alla legge ed è questo che accade nei processi penali in Italia: d’altra parte, come perfettamente sanno i promotori della riforma, esiste un complesso sistema di garanzie che consente ad ogni cittadino che sia parte nel processo – in tutti i casi di supposti condizionamenti del Giudice – di ricusarne la figura, di denunciarne l’operato anche ai fini disciplinari, di rilevare le anomalie della sua decisione nei vari gradi di impugnazione.
L’indimostrata connivenza tra Pm e giudice, l’indimostrato condizionamento del Giudice da parte del PM – smentiti da dati statistici che, da soli, demoliscono la fraudolenta operazione del governo – rivelano la vera ragione di una riforma diretta alla separazione delle magistrature, non delle carriere.
L’inconfessabile motivo ha una lunga e oscura storia alle spalle, è una frenesia che da 40 anni periodicamente emerge nella vita politica italiana e trova tra i suoi originari promotori anche quel Licio Gelli che nel suo “piano di rinascita” della Loggia P2 dedicò ampie riflessioni alla magistratura italiana.
E’ una pura e semplice scelta politica; inconfessabile, perché nulla ha a che vedere con l’ostentata tutela dei diritti dei cittadini e perché si riassume in un elementare concetto: separato il Pm dalla magistratura giudicante, si apre la strada al suo controllo da parte del potere esecutivo, notoriamente ostile al controllo giurisdizionale che realizza l’eguaglianza di tutti i cittadini di fronte alla legge e di cui la magistratura è espressione di garanzia.
Non è un caso – come segnalano molti giuristi – che l’opera distruttiva di cui è portatore questo DDL cominci con una modifica costituzionale quando sarebbe bastata una legge ordinaria: previsti in Costituzione due ordini separati, il Pm si trasformerebbe in un poliziotto, estraneo alla figura che oggi garantisce l’autonomia dell’accusa; si ridurrebbe a promuovere azioni penali solo per alcuni reati e non per altri, rispondendo del suo operato al potere politico di turno. E il giudice, affidato il Pm alle amorevoli cure del potere esecutivo, si ridurrebbe a mero burocrate indirizzato ad emettere sentenze destinate, queste sì, a sfociare in provvedimenti più aderenti alla tesi accusatoria, con buona pace del principio che ne vuole organo terzo e imparziale.
Ad essere indigesto all’attuale governo della destra è il principio dell’eguaglianza di tutti i cittadini davanti alla legge: i soli cittadini di cui ha a cuore il destino processuale, al punto da non esitare nel sovvertire la Carta costituzionale, sono funzionari pubblici, parlamentari, ministri, politici e via dicendo.
Non sono i destini dei comuni cittadini ad inquietarlo: a loro difesa, quando si imbattono in un’indagine penale, mai innalza la bandiera del cosiddetto “garantismo” – altra truffaldina espressione riservata solo ai potenti incappati nelle maglie di qualche Pubblico Ministero per reati che ledono disciplina e onore a cui sono soggetti nell’esercizio delle funzioni pubbliche.
Gli scopi inconfessabili sono chiari: indebolire e limitare il potere giudiziario; controllarne l’operato per evitare che controlli l’operato del potere politico e perché da questo riceva le opportune direttive; eliminare il controllo di legalità – odioso ostacolo – che solo un’autonoma e indipendente magistratura è in grado di svolgere.
La cosiddetta “riforma della giustizia” pronta a disgregare l’ordinamento giurisdizionale è l’emblema del complessivo progetto politico – diretto a spezzare l’unità del Paese con l’autonomia differenziata e a frantumare l’ordinamento repubblicano con il premierato – che ha come unico scopo la sostituzione della Costituzione repubblicana e antifascista con altro testo estraneo alla democrazia di questo Paese.
Come è stato detto dal presidente del Tribunale di Bologna nel corso dello sciopero dell’ANM dello scorso 27 febbraio, “mai come in questo momento va detto che il potere deve rendere ragione ai principi costituzionali che ne fondano la sua legittimazione”.
La legittimazione del potere politico viene dai principi costituzionali e a questi il potere politico eletto deve rendere conto: non ad una volontà popolare che, ancora una volta all’insegna della manipolazione, viene raffigurata come unica fonte di un incostituzionale incontrollato esercizio di governo, sapendo perfettamente che anche la sovranità popolare va esercitata nelle forme e nei limiti della Costituzione.
Nella Fattoria degli animali George Orwell aveva avvistato il pericolo: la manipolazione della realtà comincia con la corruzione del linguaggio e il successivo passaggio è l’autoritarismo.
E’ quello a cui oggi si sta assistendo, i cittadini vanno informati perché spetterà a loro nel prossimo referendum scongiurare l’archiviazione di principi e di diritti che rappresentano i valori fondanti della nostra democrazia costituzionale.

 

L’autrice: Silvia Manderino, avvocato del Foro di Venezia.

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