A colloquio con Marlina Succo in vista della sua sfida femminile al macho Vittoriale il 22 marzo

Pittrice, scultrice, attrice e performer, Marilina Succo spazia fra linguaggi espressivi diversi ma uniti da un suo originale filo rosso di ricerca. Oltre alle sue creazioni pittoriche, su larga scala, e alle sue sculture, ci ha incuriosito la sua performance The Process (Silent please), in cui si mette in gioco totalmente, usando il silenzio per dialogare con l’altro, un silenzio pieno e vivo in cui è il “sentire” è protagonista.

“Questa è la mia prima performance in assoluto – ci racconta -. L’ho scritta e ideata perché avvertivo l’esigenza di unire il mio lavoro teatrale con quello pittorico. Spesso mi sento chiedere, ma tu dipingi anche? Quell’anche mi è sempre rimasto indigesto. Se ragioniamo troppo a compartimenti stagni limitiamo la visione. L’arte è dappertutto. E’ fluida. La mia esigenza è di comunicare un linguaggio e un mio pensiero, una mia idea, una mia etica, che poi lo faccia attraverso il teatro, portando in scena uno spettacolo o lo faccia attraverso una performance, una pittura o un canto o un ballo, non cambia la sostanza. L’importante è riuscire a dire quello che si sente, il mezzo lo si trova, viene da sé, di conseguenza.

Come nascono i tuoi ritratti astratti, di grandi dimensioni, che appaiono un po’ come fossero delle presenze oniriche?

Con questi grandi occhi a spirale vorrei bucare l’indifferenza, quella certa alienazione che connota la realtà in cui siamo immersi. Vorrei poter raggiungere la gente che guarda ma non osserva, che non si sofferma più sui particolari. Non si nota più nulla perché anche quando si va a vedere una mostra siamo tutti lì con il cellulare in mano a fare storie, ma non si vive più l’emozione. Questi occhi vogliono coinvolgere l’osservatore per stimolare una visione parallela.

Ciò che lega il tuo lavoro teatrale e pittorico è la ricerca di una visione che va oltre la superficie delle cose. In che modo cerchi un rapporto diverso con il pubblico?

Lavoro sulle sensazioni che si creano. La vista è il senso più utilizzato, perché è quello più immediato, più veloce, ma abbiamo tanti altri modi per metterci in relazione. Vorrei che i miei quadri venissero osservati anche con gli altri sensi, non solo con gli occhi. E che risvegliassero un “sentire”. E’ un verbo chiave che mi ha accompagnato per tutto il mio percorso teatrale, fin dagli anni di studio all’Accademia di arte drammatica a Milano dove mi sono laureata, perché l’attore prima di tutto deve sentire, non deve diventare, deve essere.

La fantasia che si esprime attraverso il corpo è il filo rosso che percorre il tuo lavoro: lo ritroviamo nella tua pittura di grandi dimensioni, dove importante è anche il gesto fisico. Lo ritroviamo quando sei attrice e “usi il tuo corpo” come pennello. Come lo vivi?

Con la pittura rappresento dei volti, magari chissà sono volti di personaggi che ho interpretato. Nel nostro inconscio rimane ciò che viviamo profondamente. I volti che dipingo non nascono da una decisione fredda, razionale del tipo: ora disegno questo. Vengono spontaneamente. Poi però una volta finiti, effettivamente, se uno va a vedere potrebbero alludere a personaggi che ho interpretato e in qualche modo ho vissuto. E qui torno alla connessione fra la mia pittura e il mio modo di fare teatro. A cui ho aggiunto la performance, perché quando interpreto un personaggio non è Marilina che parla e dice la sua idea. Mentre qui sono interamente io.

Sei tu, in un contesto il 22 marzo non semplice, al Vittoriale dove l’ombra di D’Annunzio aleggia fortemente, come l’affronterai?

Si sente fortemente la sua presenza e quel suo essere “maniacale”, lui ha creato il Vittoriale a propria misura. Entrando in quel luogo si percepisce proprio il profumo di tutto ciò che lui è stato, ogni angolo di quel posto rappresenta un suo carattere, un aspetto della sua personalità. La cosa che abbiamo in comune io e D’Annunzio, se posso dire così, è quel suo modo di mettere un po’ in imbarazzo le persone. Lui lo faceva con questo suo proporsi come presenza ieratica. Io invece costringo il pubblico a mettersi a nudo, con le proprie emozioni. Costringo lo dico tra virgolette, nel senso che quando la persona si siede accanto a me si mette in gioco. La performance può essere vissuta in due modi: Puoi partecipare e interagire con me, oppure rimanere in piedi intorno e osservare quello che succede. Si creano delle vere e proprie storie, anche le persone che osservano si interfacciano. Io ho solo una lavagna e un gessetto, perché non voglio minimamente condizionare lo spettatore, neanche con la voce. A fronte di tutto ciò le persone tendenzialmente reagiscono e si raccontano.

D’Annunzio resta sicuramente una figura imponete, anche nel senso negativo del termine, mentre tu ci metti un elemento femminile che cerca il rapporto con l’altro, che in qualche modo lo spinge ad evolversi o quanto meno ad andare in crisi…

D’Annunzio era molto ego riferito, io invece mi metto a disposizione dell’altro, mi dedico a quella persona. Cosa che – a mio avviso- nell’arte contemporanea degli ultimi decenni pochi fanno. Vedo molte mostre, frequento le Biennali, vedo che tutto è fatto per arrivare alle masse. Vedo poca arte che si dedica al singolo. Invece secondo me abbiamo un bisogno enorme di amore e di attenzione, ma attenzione vera, proprio di sentire l’affetto da parte dell’altra persona. E questo è quello che cerco di fare, cerco di unirmi all’altra persona mettendomi sulla stessa frequenza dell’altro e cercando di stimolare, punzecchiando quelli che sono le debolezze, tirandole fiori però in modo positivo come dici tu. Facendo in modo che la crisi sia un’occasione di crescita.

Parlando del tuo lavoro c’è chi evoca la figura di Marina Abramovich, ma a mio avviso tu fai un’operazione diversa. Sbaglio?

La sua scelta è stata di esporsi dando l’occasione agli altri di esercitare “violenza” su di lei. Sì io tento di fare qualcosa di molto diverso. Molti mi paragonano a lei ma non mi corrisponde. Beninteso, lei ha segnato il secondo Novecento e i primi anni Duemila, parliamo di una artista che ha dato una svolta all’arte della performance, lei è stata un punto di riferimento importante a cui anche io ho attinto. Il paragone fra le nostre performance nasce dalla scenografia, il luogo che ricreo potrebbe evocare quello che lei ideò nel 2010 al Moma di New York per la performance The artist is present. In realtà l’unica similitudine sono le due siede una di fronte all’altra, Per il resto non c’è niente che accomuni le due performance: io sono nuda con una lavagna in mano, lei era vestita e non usava il linguaggio neanche scritto. Io cerco di essere un prolungamento dell’altro, mentre lei era molto austera. Io mi metto a disposizione, mi plasmo, ascoltando l’altro.

Questo è il lavoro che fai anche al cinema quando sei diretta da maestri come Pupi Avati o da nuovi talenti?

Un po’ sì, alla fine si lavora su flussi di energia e ci si mette a disposizione di un personaggio. Io devo capire il personaggio com’è. Si affina il processo nel capire l’altro. Con Pupi Avati ho fatto Nato il 6 ottobre, mi muovo tra tv e cinema, che rimane il mio più forte amore.