Così la protetta di La Russa si dimette, non per senso delle istituzioni, non per rispetto del ruolo, ma – come lei stessa scrive – perché “costretta”

C’è voluto quasi un anno perché Rosanna Natoli lasciasse formalmente il Consiglio Superiore della Magistratura. Non per senso delle istituzioni, non per rispetto del ruolo, ma – come lei stessa scrive – perché “costretta”. Una parola che pesa, soprattutto detta da chi è indagata per rivelazione di segreto d’ufficio, per avere incontrato in privato una giudice sotto procedimento disciplinare e averle suggerito come difendersi, rivelando gli “umori” della camera di consiglio. A registrare tutto, un audio consegnato alla sezione disciplinare. A inchiodare la scena, l’imbarazzo della complicità.

La consigliera in quota Fratelli d’Italia, sostenuta fino all’ultimo da Ignazio La Russa e difesa malvolentieri da Giorgia Meloni, si è aggrappata alla scomparsa dell’abuso d’ufficio – cancellato dalla riforma Nordio – come se questo bastasse a lavare tutto. Intanto il Csm l’aveva già sospesa da incarico e stipendio. Lei, però, restava lì. A Palazzo Bachelet. Perché? Perché no.

Solo quando la speranza di un’archiviazione rapida si è spenta, Natoli ha scelto di scrivere la lettera di dimissioni, dicendo di non poter più lavorare e di essere danneggiata “psicologicamente e economicamente”. Nessuna parola sull’istituzione ferita, sull’etica pubblica, sulla credibilità del Consiglio. Solo vittimismo.

L’ennesima dimostrazione che nel nostro sistema il problema non è solo chi sbaglia, ma chi si rifiuta di rispondere al proprio errore. E chi intorno fa finta che non sia successo nulla.

Buon lunedì.

In foto Palazzo Bachelet, foto wikipedia commons