A dieci anni dalla scomparsa di Francesco Di Giacomo, nasce un progetto culturale che sfida l’individualismo digitale e restituisce centralità alla band, alla relazione e all’ascolto collettivo. Ce lo raccontano Antonella Caspoli, compagna di una vita di Francesco e Andrea Satta dei Têtes de Bois

In un tempo in cui la musica si sviluppa in molte direzioni, tra linguaggi digitali, nuove tecnologie e forme espressive sempre più ibride, c’è chi sceglie di riportare al centro l’esperienza collettiva, l’ascolto reciproco, la dimensione della band come luogo di incontro creativo. Con questo spirito nasce il Premio BIG – Francesco Di Giacomo, un progetto culturale e umano che prende forma a dieci anni dalla scomparsa della voce storica del Banco del Mutuo Soccorso e che culmina l’11 e il 12 luglio a Zagarolo.
La direzione artistica è affidata ad Andrea Satta, cantante dei Têtes de Bois, legato a Di Giacomo da un’amicizia profonda e da anni di sperimentazioni artistiche condivise. Al suo fianco, nell’ideazione e nella realizzazione del premio, c’è Antonella Caspoli, compagna di una vita di Francesco, attiva in ambito istituzionale e culturale nel comune di Zagarolo, produttrice musicale e artista orafa, con alle spalle partecipazioni a mostre e convegni in tutta Italia.

Antonella, l’idea di questo premio è nata da un’intuizione tua ma anche da un tempo interiore che non è sempre facile da raccontare, soprattutto quando arriva dopo una perdita. Raccontaci come si è trasformata questa idea, da pensiero a progetto reale.
L’idea era lì da un po’, ma i tempi del lutto sono ovattati e dilatati. Non mi consentivano di renderla concreta. Poi mi sono resa conto che oggi non è più così diffusa la possibilità per le band di suonare nei locali o fare un disco. C’è una tendenza all’individualismo, anche a una certa difficoltà nel costruire relazioni.
Ne parlai con Andrea Satta, che per me è famiglia. E come diceva sempre Francesco: “Andrea le cose le fa”. Così, con l’aiuto di tanti amici, abbiamo dato le gambe a questo sogno.

Andrea, tu con Francesco hai condiviso non solo il palco, ma anche esperimenti artistici poetici e visionari. Che tipo di linguaggio avevate insieme? E cosa c’era, secondo te, nel modo in cui Francesco si metteva in gioco?
Francesco è stato una delle mie “vittime” preferite. Gli ho fatto fare di tutto: lo misi su un bidone su una ferrovia abbandonata a leggere Calvino, lo imbracai dentro una cesta di mongolfiera per raccontare la periferia romana dall’alto, lo feci camminare – con fatica – su un ponte tibetano per un film. Lui un po’ mi amava, un po’ mi malediceva. Ma era sempre con me. Quella che avevamo era una complicità profonda, da fratelli. E ogni volta pensavamo insieme a come sorprendere, come stupire il pubblico e noi stessi.

Questo è un premio dedicato alle band. Una scelta forte, oggi, in un contesto musicale che sembra invece privilegiare sempre più la produzione solitaria. Cosa significa, oggi, credere ancora nella forza creativa di un gruppo?
La band è l’officina dei sentimenti, come dico spesso. È il luogo dove si creano relazioni, dove si litiga, si sbaglia, ci si salva. È una risposta a questa tendenza alla creazione solitaria davanti a uno schermo. Noi parliamo di intelligenza artigianale, come contrappunto – non rifiuto – a quella artificiale. Niente di nostalgico, ma un modo per dire che le canzoni nascono da tensioni vere. E per farle, serve un altro essere umano davanti.

Antonella, il tuo rapporto con la musica è stato profondo ma quotidiano, domestico, pieno di ascolto e vicinanza. Come è cambiato nel tempo, soprattutto ora che la musica è anche un ponte con un’assenza?
Lo so che potrebbe sembrare strano, ma oggi preferisco il silenzio.
Anni fa, mentre lavoravo a un gioiello, c’era sempre un disco o un CD che girava. Ricordo un ciondolo nato ascoltando Romeo e Giulietta di Prokofiev, lo chiamai Giu-Ro. Ma ora non riesco più ad ascoltare musica come sottofondo. Voglio farlo da seduta, con attenzione. Non nei locali, non con i rumori intorno. È cambiato qualcosa. Forse sono cambiata io. Ora la musica deve arrivare quando la chiamo. Altrimenti, resto nel silenzio.

 Andrea, oggi si parla molto di strumenti tecnologici che aiutano nella composizione, dell’uso dell’intelligenza artificiale anche nella scrittura di testi o melodie. Come ti poni rispetto a questo scenario, tu che hai sempre dato importanza alla dimensione collettiva e artigianale della musica?
Io non sono contrario alla tecnologia. Ma credo che vada sciolta dentro una visione umana.
L’AI può elaborare testi, suoni, stimoli. Ma la band ti costringe al limite, al confronto. Ti fa inciampare e rialzare. È lì che nasce l’arte. È la band che ti fa capire cosa sei disposto a cedere e cosa no. È una scuola di vita, oltre che di suono.

Antonella, mettere in piedi un progetto pubblico come questo, dedicato a una persona che è anche parte della tua intimità, richiede una forza particolare. Come vivi questo passaggio tra l’interno e l’esterno, tra il ricordo privato e il racconto condiviso?
Per ora il mio progetto sono proprio le serate finali del Premio BIG. Voglio che siano autentiche, dense, vere. Non so cosa verrà dopo. Questo era il sogno e adesso prende forma. Non ho bisogno di altro, se non di ascoltare e fare con cura. Il resto, verrà se dovrà venire.

 Andrea, tu hai detto più volte che questo premio non vuole essere un ricordo nostalgico ma un racconto…
È una differenza enorme. Ricordare è tornare indietro. Raccontare è rendere vivo. Francesco non è una reliquia. Era una voce viva, piena, concreta. Non veniva da un contesto colto. Era figlio della gente vera, del pane condiviso. Ma aveva un’eleganza che stava nell’aria, non nei vestiti. Parlava con tutti. Questo premio serve a farlo parlare ancora.

Avete ricevuto molte adesioni e manifestazioni di interesse da parte di band emergenti. Che impressioni avete avuto finora da chi vi scrive, vi ascolta, vuole partecipare?
Sì, le iscrizioni stanno arrivando da tutta Italia. Sono soprattutto band giovani. Questo ci sorprende e ci fa ben sperare. Perché significa che c’è ancora bisogno di stare insieme per fare musica. Essere selezionati sarà già un riconoscimento. E per la band vincitrice ci sarà una produzione. Ma più del premio, conta la relazione.

Le serate del premio non sono “solo”eventi musicali, ma momenti di scambio, di condivisione, di racconto. Come le avete immaginate? Che tipo di energia sperate di costruire con chi salirà sul palco, ma anche con chi sarà in ascolto?
Nelle due serate dell’ 11 e 12  luglio non ci sarà solo una gara. Ma una festa, un rito collettivo, con immagini, racconti, video, parole. Vogliamo che sia un racconto continuo, non una commemorazione. Francesco era popolare nel senso più nobile. Apriva la porta, ti offriva da bere, ti diceva: “mettiti dove vuoi”. Questa è l’atmosfera che vogliamo.

 Quale eredità secondo voi lascia Francesco Di Giacomo oggi?
Andrea: L’eredità di Francesco non è fatta solo di canzoni ma è un immaginario fatto di una varietà di linguaggi, ironie, intuizioni. Era uno che si raccontava anche sul palco, mentre suonava. E questo è quello che proviamo a fare anche noi oggi: non ricordare, ma continuare a raccontarlo.
Antonella: L’ascolto… era la persona che diceva “entra, siediti, ti porto qualcosa”. Non chiedeva chi eri. Ti ascoltava. Credo che la sua grandezza fosse anche lì.

 

L’autrice: Giuliana Vitali è giornalista e scrittrice. E’ appena uscito il suo “Nata dall’acqua sporca” (Giulio Perrone editore)

In apertura un ritratto di Francesco Di Giacomo