Quando Mauro Berruto dice che Italia-Israele del 14 ottobre a Udine «è una partita che non dovrebbe essere giocata», non sta facendo ideologia. Sta ricordando che lo sport, se non prende posizione, diventa complice. È già accaduto. È accaduto quando la Russia è stata esclusa da tutte le competizioni dopo l’aggressione all’Ucraina. Ed è accaduto quando il Sudafrica dell’apartheid è rimasto fuori dal campo per ventiquattro anni. Due pesi, due misure: la Fifa, l’Uefa e il Cio sembrano allergici alla coerenza.
Berruto non chiede l’impossibile. Non invoca il boicottaggio della nazionale, ma un gesto simbolico. Come le magliette rosse di Panatta e Bertolucci nella finale in Cile contro Pinochet. Come gli striscioni, i bracciali, i segni che mostrano che anche il pallone ha una coscienza. Invece si finge che nulla accada. Che i bombardamenti, la fame imposta, le fosse comuni a Gaza, non siano sufficienti a giustificare nemmeno un sopracciglio alzato.
Il paradosso è evidente. Gli atleti russi possono gareggiare solo se prendono le distanze da Putin. Gli israeliani no: in molti casi rivendicano apertamente le scelte di Netanyahu, eppure nessuno muove un dito. La Federcalcio italiana, almeno, potrebbe dire qualcosa. Potrebbe dissociarsi, potrebbe suggerire un altro stadio, un’altra data, un’altra forma. Invece tace.
Non ci si nasconda dietro l’autonomia dello sport. Anche il silenzio è una decisione politica. E oggi, davanti all’occupazione, alla distruzione sistematica, all’assedio, non c’è neutralità che tenga. Chi gioca quella partita, la legittima.
Buon mercoledì.
Foto di Joshua Hoehne su Unsplash




