Chi ha bisogno di valutazioni indipendenti, quando basta l’entusiasmo di Salvini? Con due ore di discussione e qualche settimana per aggiornare un progetto vecchio di 14 anni, il Cipess ha dato il via libera al Ponte sullo Stretto. Un’opera da quasi 14 miliardi, interamente a carico del bilancio nazionale, che i suoi promotori continuano a spacciare come «acceleratore di sviluppo».
Nel frattempo, restano 68 criticità irrisolte certificate dal Comitato scientifico del Mit. Tra queste, l’uso di materiali inadeguati, la sottovalutazione del rischio sismico e la presenza di una faglia attiva a venti metri dal pilone calabrese. Ma la società Stretto di Messina, come se niente fosse, nega la possibilità di terremoti.
Il progetto divide le opere in una miriade di mini-lotti, col risultato di moltiplicare i cantieri e rendere impossibile un controllo unitario. Il rischio? Dieci anni di devastazione urbana e sociale tra Messina e Villa San Giovanni, con oltre 700 famiglie in attesa di esproprio.
Manca ancora il parere della Corte dei Conti, ma si sa: in Italia il diritto segue l’annuncio. E se qualcosa dovesse andare storto, ci penserà la penale da 1,5 miliardi da pagare a Webuild.
Si chiama “opera strategica”, ma i dubbi sul ponte restano identici a quelli che portarono allo stop del 2012. Solo che oggi, anziché un piano, c’è una propaganda. E anziché una visione, c’è un plastico.
Il ponte, nelle parole del governo, è una promessa di futuro. Nei fatti è un debito, una frattura, un’ipoteca sulla pelle del Sud. Un simbolo di potere più che una necessità. Una passerella sospesa nel vuoto – tecnico, ambientale, democratico – costruita per far credere che il cemento possa colmare ciò che la politica ha distrutto.
Buon giovedì.




