Donald Trump rivendica «l’arte dell’accordo», ma a forza di trattare per la foto di copertina ha dato a Xi Jinping le chiavi dell’ordine globale. L’incontro con Putin, venduto come discontinuità, ha sdoganato il Cremlino dall’angolo delle sanzioni e consegnato a Pechino un partner rivitalizzato, libero di giocare la partita anti-occidentale senza pagare il prezzo dell’isolamento. Il risultato non è una pace: è una resa.
Il «capolavoro» è tutto qui. Trump ha smontato, pezzo dopo pezzo, il perno atlantico costruito dagli Stati Uniti. Ha messo in saldo la sicurezza europea e trasformato l’Ucraina in moneta di scambio, mentre Xi e Putin incassano il dividendo: un asse che propone un nuovo ordine, meno regole condivise e più sfere d’influenza.
Il resto è propaganda. Mentre a Washington si celebra l’«accordo storico», a Mosca si brinda alla fine dell’isolamento: a Putin è bastato presentarsi per tornare interlocutore inevitabile. A Pechino, invece, si pianifica. La Cina ottiene tempo e margini: guida il sud globale, attira capitali fuori dal dollaro, fissa norme alternative per infrastrutture e tecnologie. E gli alleati europei restano senza bussola, costretti a negoziare da deboli su energia e sicurezza e tecnologia. E l’Europa paga il conto: una Nato più fragile, mercati nervosi, diritti ridotti a pedine sulla scacchiera delle concessioni.
Non è realpolitik: è miopia. Un presidente che scambia le luci del palco per politica estera ha regalato ai rivali ciò che inseguivano da anni. Chiamarlo capolavoro è corretto solo se si aggiunge l’aggettivo: fallimentare.
Buon martedì.




