«È tutto davanti ai vostri occhi, 24 ore su 24», denuncia la giornalista palestinese, inviata di guerra per Al Jazeera e ora rifugiata a Marsiglia dopo aver subito ripetute minacce di morte. L’abbiamo incontrata

Parlare con Faten Elwan è come trovarsi improvvisamente in prima linea. È come essere catapultati per le strade di Gerico o di Jenin, in fuga da un bulldozer o dagli spari dei soldati e dei coloni israeliani. O, improvvisamente, a fronteggiare un interrogatorio, un’aggressione verbale e fisica. Senti il dolore, senti le mani e le armi dei militari che ti sono addosso e senti la rabbia. Faten Elwan è una giornalista palestinese che lavora per Al Jazeera e altre testate internazionali come la turca Trt World. È un’inviata di guerra che negli anni ha lavorato in tutto il mondo, dall’ Arabia Saudita agli Stati Uniti o al Qatar, seguendo i vari trattati e sviluppi internazionali della questione israelo-palestinese, fino a quando, in seguito a un arresto arbitrario da parte dell’esercito e la fedina penale improvvisamente diventata “sporca”, non ha più potuto viaggiare come voleva e doveva per il suo mestiere. Ma Faten è inviata di guerra anche rimanendo, nella sua terra. La guerra è semplicemente lì, da quando è nata. Anzi da prima:«Sono rifugiata da tre generazioni».

Non è “solo” il 7 ottobre, non è solo la guerra su Gaza. È una guerra permanente che Faten combatte ogni giorno, anche adesso che vive a Marsiglia da sette mesi per motivi di sicurezza: sono i ricordi, i morti pianti, gli orrori visti, le ingiustizie subite e quando parla è un fiume in piena: «Hai mai incontrato un caso di disturbo post traumatico», mi chiede? Al collo la chiave del “ritorno” (la chiave è la testimonianza della “Nakba” del 1948 e il simbolo del diritto dei palestinesi di tornare nella loro terra, sancito dalla risoluzione Onu 194, ndr). Faten, nata in Venezuela, arrivata in Palestina all’età di 7 anni, dice di aver cominciato fin da piccola a voler reagire alle ingiustizie che vedeva, a partire dalla scuola e dalla quotidianità.

Il giornalismo è nato in lei con questa vocazione: l’indignazione. Raccontare i soprusi e dare voce a tante persone. «Quello che mi interessa non sono solo i fatti, ma cosa vivono le persone. Non è la bomba che è stata sganciata, ma su chi. È questo il mio modo di fare giornalismo».

Faten Elwan era anche amica stretta di Shireen Abu Akleh, la giornalista di Al Jazeera uccisa nel maggio del 2022 da soldati israeliani nel campo profughi di Jenin. «Per me c’è stato un prima e un dopo. Quello che provavo era rabbia e desiderio di vendetta. Ma ho deciso di non cadere in questa trappola, di non diventare quel mostro che vogliono che diventi». Come molti altri giornaliste e giornalisti palestinesi, in Cisgiordania o a Gaza, Faten è insieme una professionista, una testimone e una vittima. Ma soprattutto un target: «Questa guerra non si combatte solo sul campo, ma anche attraverso la sua narrazione, ed è per questo

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