La condizione attuale delle democrazie liberali non può essere letta unicamente nei termini di una crisi contingente, è piuttosto un processo di smantellamento lento e strutturale dei suoi presupposti fondativi. Il principio di separazione dei poteri, cardine dello Stato di diritto, risulta progressivamente eroso da forme di concentrazione decisionale in capo all’esecutivo, spesso legittimate in nome dell’efficienza o della rapidità d’azione.
Contestualmente, la laicità dello Stato – quale garanzia di neutralità dell’ordinamento rispetto a visioni etiche e religiose particolari – viene intaccata attraverso una crescente permeabilità del diritto alle morali maggioritarie, che condizionano le scelte legislative e le politiche pubbliche. In tale quadro, il controllo del cosiddetto quarto potere, la stampa, assume una funzione strategica: non più spazio pluralistico di opinione pubblica critica, ma terreno di omologazione narrativa e riduzione del dissenso, mediante concentrazioni editoriali e dispositivi di influenza informativa. Il processo è lento, spesso impercettibile nella quotidianità, ma produce effetti di lungo periodo che riconfigurano l’assetto democratico in senso plebiscitario.
La negazione o minimizzazione della crisi climatica si inserisce in questo disegno di ridefinizione dell’agenda pubblica: ciò che dovrebbe costituire un’emergenza globale viene declassato a tema opinabile, spostato fuori dal perimetro della responsabilità politica cogente. La rimozione della questione ambientale consente di evitare la trasformazione dei modelli economici e giuridici che essa imporrebbe, perpetuando uno status quo compatibile con gli interessi consolidati.
Da questo contesto discende la nascita di un nuovo paradigma: lo stato d’eccezione come forma ordinaria di governo. L’emergenza, anziché rappresentare una sospensione temporanea del diritto per far fronte a un pericolo concreto e delimitato, diventa meccanismo permanente di regolazione dei conflitti sociali. Le restrizioni delle libertà civili e politiche vengono giustificate in base a un principio di “responsabilità collettiva”, che sposta il baricentro dalla tutela delle garanzie individuali alla conformità a un bene pubblico definito dall’autorità. La logica dell’eccezione sostituisce gradualmente la legalità ordinaria, generando un diritto flessibile, adattabile e sottratto a un controllo giurisdizionale pieno.
In questo scenario, assume rilievo il fenomeno della “guerra utile”, intesa come strumento funzionale al mantenimento dello stato d’eccezione. Il conflitto armato non è più concepito come evento tragico da risolvere nel più breve tempo possibile, ma come condizione geopolitica da stabilizzare in forma di congelamento permanente. L’esempio del conflitto in Ucraina è emblematico: la mancata prospettiva di una soluzione negoziata produce un fronte che non avanza e non arretra, mentre il lessico bellico permane come giustificazione per la compressione delle libertà, l’aumento della spesa militare e la subordinazione delle politiche interne a esigenze di sicurezza.
La pace non viene espulsa solo come esito, ma come categoria giuridica potenzialmente idonea a ricondurre il potere entro limiti normativi, e per questo sostituita da formule ambigue che evitano la chiusura del conflitto: “guerra congelata”, “pace armata”, “pace sporca”, espressioni che mantengono l’eccezione in vita sotto una veste semantica attenuata.
La democrazia liberale sopravvive formalmente, ma perde progressivamente la sua sostanza garantista, sostituita da un modello emergenziale che trasforma l’eccezione in regola e la partecipazione in adesione. Il diritto, da limite al potere, diventa il suo strumento di perpetuazione.




