C’è un espediente che funziona sempre: evocare l’11 settembre per squalificare chi vince. Lo abbiamo visto ieri, quando l’elezione di Mamdani a New York è stata accolta da un coro di slogan compulsivi: «sindaco islamico nella città ferita», «resa culturale dell’Occidente», «pro-Pal», «fanatici». Nessuna analisi del voto, nessuna lettura del contesto urbano, nessuna domanda su affitti, trasporti, salari. Solo la scorciatoia identitaria, perché è quella che permette di non parlare della realtà.
La destra italiana che ogni giorno si dichiara sotto assedio, che invoca tutela contro la violenza delle parole altrui, si è esercitata nel vomito d’odio con una naturalezza impressionante. Quelli che chiedono compostezza, che pretendono rispetto per ogni loro sensibilità ferita, hanno passato 24 ore a rovesciare sospetti religiosi come se fossero munizioni. La vittimizzazione, il lamento perpetuo, dura il tempo di un titolo: appena l’oggetto da colpire cambia latitudine, la misura etica evapora.
È stato tutto evidente: Salvini che fa l’inventario moralistico delle presunte idee del neosindaco come un elenco di minacce; Vannacci che accosta un voto locale all’ombra dell’11 settembre per produrre una narrazione di “decadenza”; Ciriani che dichiara New York «non rappresentativa» pur di evitare l’idea che quella scelta politica dica qualcosa anche a noi. La stessa grammatica, lo stesso riflesso pavloviano, lo stesso bisogno di trovare un nemico da esibire.
Nel frattempo, Mamdani parlava di integrità amministrativa e di impegno contro l’antisemitismo. Nessun trionfalismo, nessuna bandiera agitata. Compostezza, appunto. È questo il punto che brucia. Perché chi vive di propaganda teme la normalità della politica quando non può ridurla a caricatura.
Questa vicenda mostra cosa resta della destra quando si toglie la retorica della difesa dei valori: un riflesso, una paura, una fregola. E niente di più.
Buon giovedì.




