Il presidente brasiliano Luiz Inácio Lula da Silva ha definito la conferenza sul clima di Belém la “COP della verità”. E in effetti, durante queste giornate concitate – tra incendi, proteste dei popoli indigeni e tensioni diplomatiche – una verità è emersa con chiarezza: il mondo è ormai fuori traiettoria rispetto agli obiettivi dell’Accordo di Parigi e molti Paesi non sembrano davvero intenzionati a cambiare rotta.
Certo, nella dichiarazione politica finale, il cosiddetto Mutirão globale, si riafferma la necessità di contenere l’aumento delle temperature entro 1,5 gradi centigradi, e si dichiara che la transizione energetica è inevitabile. Tuttavia, c’è un grande assente: una vera roadmap per lo stop all’uso di gas, petrolio e carbone. Un’assenza pesante – una mancanza che pesa ancora di più.
A chiedere che l’eliminazione graduale dei combustibili fossili fosse esplicitamente inserita nel testo finale non erano solo ambientalisti ed ecologisti, ma oltre 80 Paesi del mondo — molti dei quali in Africa e in America Latina, con la Colombia e il Kenya in prima linea — oltre naturalmente all’Unione europea.
All’attivismo del blocco degli “ambiziosi” si è però contrapposto il fronte dei petro-Stati: Arabia Saudita, Emirati Arabi Uniti, Russia e altri Paesi produttori, che hanno mantenuto una posizione compatta e si sono schierati per impedire qualsiasi riferimento a un phase-out dei combustibili fossili. Il risultato finale è un testo di compromesso che consolida il multilateralismo, rafforza gli NDC e la cooperazione finanziaria, ma evita accuratamente di prendere un impegno chiaro sull’eliminazione dei combustibili fossili, la vera questione politica attesa dalla comunità internazionale.
C’è stato sì un accordo per triplicare i finanziamenti destinati all’adattamento – cioè alle misure per prevenire o ridurre i danni causati dalla crisi climatica – nei Paesi in via di sviluppo. Ma l’intesa rientra comunque nel tetto dei 300 miliardi di dollari di finanza climatica già fissato alla COP di Baku. Di questa cifra, circa 120 miliardi all’anno saranno effettivamente dedicati all’adattamento dei Paesi più vulnerabili: un passo avanti importante, ma che arriverà solo nel 2035, e non entro il 2030 come richiesto dai Paesi beneficiari. Inoltre, molti speravano che questi fondi si aggiungessero ai 300 miliardi esistenti: così non è stato.
Alla COP30 ha pesato anche l’assenza degli Stati Uniti, guidati da un Donald Trump tornato alla Casa Bianca lo scorso anno e nuovamente ostile all’agenda climatica. Davanti all’Assemblea generale dell’Onu, il presidente americano aveva definito il riscaldamento globale “la più grande truffa mai perpetrata nel mondo”, accusando le Nazioni Unite e la comunità scientifica di “previsioni sbagliate e costose”. Trump ha invitato i Paesi a “smettere di credere a questa truffa green”, sostenendo che altrimenti “rischiano il fallimento”.
In realtà, gli Stati Uniti non sono stati del tutto assenti a Belém. Al contrario: una delegazione ampia e molto attiva – composta da oltre cento governatori, sindaci e leader statali e locali – ha partecipato ai lavori accanto a organizzazioni e associazioni impegnate sul clima. “Questa è una coalizione potente, che rappresenta circa due terzi degli americani, tre quarti del nostro Pil e oltre il 50% delle emissioni di gas serra”, ha ricordato Todd Stern, ex inviato speciale per il clima sotto l’amministrazione Obama. Tra le presenze più simboliche, quella del governatore della California, che con la sua partecipazione si è di fatto candidato a guidare il fronte statunitense impegnato nell’azione climatica.
L’Italia, invece, è rimasta defilata, priva di proposte realmente ambiziose. Non solo: Roma si è mostrata scettica sulla roadmap europea per l’eliminazione graduale dei combustibili fossili, ritrovandosi così – insieme alla sola Polonia – l’unico Paese dell’Unione a non sostenere apertamente l’iniziativa. Secondo la deputata Ilaria Fontana, membro della Commissione “Ambiente” della Camera dei deputati, «La Cop30 si è chiusa con l’ennesimo capolavoro di ipocrisia internazionale. Il ministro Pichetto Fratin prova a venderci questo accordo annacquato come un ‘passo avanti’, ma esattamente verso dove? Perché qui l’unica cosa chiara è ciò che manca: un piano reale per uscire dai combustibili fossili e un impegno credibile per fermare la deforestazione. L’Italia dovrebbe guidare la battaglia per la decarbonizzazione, non accontentarsi di un compromesso che sa di resa».
Secondo Sara Sessa, attivista del movimento ambientalista Fridays For Future, presente alla COP30 in delegazione.«Il risultato finale di questa COP, riassunto nel testo del Global Mutirão, è caratterizzato da un linguaggio debole e impegni non vincolanti. Ma non tutto è perduto, e i pochi passi avanti compiuti sono merito di un’incredibile mobilitazione della società civile, a Belém e con echi in tutto il mondo. La COP30 ha visto una partecipazione popolare tra le più variegate, con una grande presenza dei Popoli Indigeni dell’America Latina, purtroppo per la maggior parte senza diritto di accesso all’area dei negoziati. Dalla COP arriva un messaggio chiaro e unanime: la società civile non aspetta più. Mentre i governi faticano a riconoscere ufficialmente le cause della crisi climatica e a farsi carico delle proprie responsabilità, il cambiamento è già in atto. La transizione non si ferma ai tavoli dei negoziati: è già realtà nelle strade, nelle città e nelle campagne del mondo».
Quella di Belém è stata anche la prima COP a svolgersi dopo il superamento, lo scorso anno, della soglia di 1,5 °C di aumento medio globale, un limite che l’Accordo di Parigi indicava come linea rossa da non oltrepassare. Un contesto che rende ancora più urgente la necessità di accelerare. Ma dentro questo quadro preoccupante, qualche segnale di speranza c’è. Secondo un report del think tank Ember, nel primo semestre del 2025, infatti, l’aumento della produzione da fotovoltaico ed eolico è stato sufficiente da solo a coprire tutta la nuova domanda elettrica globale: un sorpasso storico che ha permesso alle rinnovabili di superare per la prima volta il carbone nella generazione elettrica mondiale.
Forse Belém non è stata la «COP della verità» che molti attendevano. Ma mostra con chiarezza che la transizione è già in corso, spesso più velocemente della politica. Resta ora da capire se i governi sapranno trasformare questi segnali in impegni reali. Perché la finestra per evitare conseguenze ancora più gravi non è ancora chiusa – ma si sta restringendo.




