L’arte della disobbedienza. Così abbiamo titolato questo nuovo numero di Left cogliendo l’immagine di nuova generazione che rifiuta la guerra, il disumano, l’ingiustizia, che è scesa in piazza contro il genocidio a Gaza e che si manifesta in tanti Paesi per chiedere giustizia sociale e diritti. Protagonisti sono gli attivisti della Gen Z. Per mesi ed anni gli adolescenti sono stati definiti “fragili”, “rinchiusi nei loro smartphone”, incapaci di reagire dopo l’isolamento pandemico. La narrativa dominante li dipingeva come un arcipelago di solitudini, dediti allo scroll più che alla partecipazione politica. Ma era una violenta negazione.
Loro sono stati i primi a manifestare – per la pace, contro il climate change, contro le disuguaglianze, contro ogni forma di violenza ovunque sia perpetrata, in particolare quella contro le donne – e sono stati tacciati di essere ingenui, manipolati, inconsapevoli. Nel caso delle mobilitazioni pro-Palestina, addirittura sono stati bollati come “antisemiti”, “filo-terroristi”, “nemici dell’Occidente”. Invece, come spesso accade nella storia, la realtà è andata in direzione ostinata e contraria.
Nel 2024 e ancor più nel 2025 i movimenti giovanili hanno mostrato qualcosa di inatteso: il risveglio globale di una generazione che non si accontenta di sopravvivere nel precariato, che rifiuta un futuro precario. E lo fa con una lucidità politica che ha smentito tutti gli stereotipi.
In questo numero di Left lo raccontiamo con molti contributi esteri e testimonianze raccolte sul campo. A partire dal racconto della rivolta dei giovani nel Nepal, che hanno costretto il governo corrotto a dimettersi. Ora una nuova governatrice, la giurista ed ex ministra Sushila Karki, è la prima donna a ricoprire questa carica.
L’onda nepalese si è mossa sventolando la bandiera del manga One Piece che abbiamo messo in copertina. Il Jolly Roger dei “Pirati dal cappello di paglia” è diventato un simbolo generazionale di ribellione contro corruzione, censura, nepotismo e privilegi delle élite politiche. In Nepal (come in altre nazioni asiatiche) anime e manga sono molto popolari tra la Gen Z, quindi usare un’icona di One Piece serve a parlare un “linguaggio comune” e a creare un’identità di movimento facilmente riconoscibile. E il loro linguaggio di protesta riecheggia quello che si è levato in varie forme dalle università iraniane alle strade di Antananarivo in Madagascar, dai campus statunitensi alle piazze europee, fino alle metropoli latinoamericane. Analogo ovunque è il loro modo di organizzarsi in modo orizzontale, fluido, facendo rete. Modalità mutuata dal web emulando quello che fu il movimento giovanile di protesta ad Hong Kong dove il motto era “Be water my friend”, “Sii come l’acqua, compagno”. A Hong Kong purtroppo il movimento è stato tacitato dalla repressione cinese attraverso l’imposizione della National security law. Così come molti anni prima, nel 2001, era stato represso con la violenza dalla polizia il movimento new global in Italia. Analoga sorte hanno avuto le primavere arabe del 2011 e in particolare quella di piazza Taharir in Egitto. Ma il fuoco della rivolta non violenta continua ad ardere sotto la cenere, come ci dice il reportage di Luce Lacquaniti dal Cairo, che racconta come la protesta giovanile stia utilizzando strumenti come il fumetto per portare avanti le istanze dei movimenti, cercando di bypassare la censura.
Dalle proteste del 2011 molte cose sono cambiate. E la generazione Z, nata nella cultura digitale – dal Nepal all’Indonesia, dal Marocco (dove il movimento si chiama Gen Z 212, citando il prefisso del Paese) al Messico e oltre – sta mettendo in campo nuove forme di lotta, in modo decentrato, senza leader individuabili, sfidando i servizi di intelligence.
È un fatto nuovo che cerchiamo di leggere e interpretare, anche con l’aiuto di studiosi dei movimenti politici giovanili come l’ordinaria della Scuola Normale Superiore Donatella Della Porta.
In varie parti del mondo, in contesti molto diversi fra loro, racconta la professoressa, i giovani stanno sfidando pacificamente regimi autoritari, repressioni brutali, sorveglianza digitale e campagne diffamatorie costruite ad arte. Gaza è il cuore emotivo e simbolico di questa rivolta non violenta che attraversa i cinque continenti. Ovunque emerge una analoga pretesa che va oltre la sacrosanta richiesta di bisogni materiali necessari per vivere dignitosamente. Oggi i ragazzi chiedono di più.
Il punto ora è capire come queste istanze possano trovare rappresentazione politica. In Nepal, come accennavamo è avvenuto con Karki premier, ma anche in Bangladesh dove è stato chiamato alla guida del Paese, su proposta dei manifestanti, l’economista Muhammad Yunus, premio Nobel per la pace nel 2006 per aver creato tramite la sua Grameen Bank sviluppo economico e sociale dal basso, aiutando a ridurre la povertà attraverso il sostegno finanziario a persone emarginate, soprattutto donne, favorendo così anche l’emancipazione femminile. In questi due Paesi asiatici i movimenti giovanili e studenteschi si sono riconosciuti in figure istituzionali assonanti con i propri temi.
In Italia il movimento pro-Pal, che è sceso in piazza con i sindacati di base e partiti della sinistra radicale, sta cercando forme di aggregazione in vista delle elezioni del 2027. L’esperienza degli indignados da cui in Spagna nacque Podemos dice che ci vuole tempo prima che i movimenti conquistino la scena politica. L’importante è sostenerli, anche denunciando le forme di repressione che subiscono dai governi di destra e dall’establishment.




