Bisognerebbe chiedersi perché il Parlamento italiano abbia sempre scartato l’ipotesi più semplice, ossia il copia e incolla della definizione di tortura sottoscritta dal nostro Paese in sede di Nazioni Unite, nel lontano dicembre 1984 (all’epoca del primo governo Craxi), poi ratificata dalle Camere nel novembre 1988 (presidente del consiglio Ciriaco De Mita). La spiegazione prevalente è che si temeva di trasmettere la sensazione di voler “punire” le forze di sicurezza; perciò, non solo durante questa legislatura, si è aperto un cantiere di mediazione, non già fra destra e sinistra, bensì fra Parlamento e apparati di polizia, con il primo in timoroso ascolto dei secondi.
Ma i vertici delle varie forze dell’ordine italiane si sono sempre opposti all’inserimento del crimine di tortura nel nostro ordinamento e così il Parlamento ha di fatto riconosciuto agli apparati un irrituale diritto di veto, segno di un grave e preoccupante deficit di autorità democratica. Le conseguenze sono note: in Italia la tortura è stata sovente praticata, soprattutto in carceri e manicomi, restando sempre impunita; l’attività di prevenzione degli abusi è stata di conseguenza debole o inesistente; il potere degli apparati, e la loro dinamica autoreferenziale, si è via via rafforzato a spese degli organismi elettivi.
I fatti di Genova hanno un po’ cambiato lo scenario, poiché nel luglio 2001 gli abusi sono stati praticati su larga scala e su cittadini, diciamo così, normali, anziché a danno di brigatisti, detenuti comuni o altre persone considerate di seconda classe. Sono poi arrivate le clamorose condanne nei processi Diaz e Bolzaneto (definitive nel 2012) e infine la dirompente sentenza della Corte europea sui diritti umani (Cedu) nel 2015, che ha chiesto all’Italia – condannata nel giudizio promosso da Arnaldo Cestaro, umiliato alla scuola Diaz – di fare davvero giustizia, nonché una seria opera di prevenzione. La Corte ha indicato tre provvedimenti essenziali: una legge sulla tortura; i codici di riconoscimento sulle divise degli agenti; la sospensione o la rimozione, a seconda dei casi, degli agenti colpevoli di abusi. Di codici e rimozioni al momento nemmeno si parla (se non per la burlesca ipotesi dei “codici di reparto” promessi dal ministro Minniti), mentre la norma uscita dal Senato è frutto dell’ultima mediazione possibile: approvare un testo che abbia l’etichetta di “legge contro la tortura”, ma non la sostanza. Una legge feticcio. Di Cesare ha parlato di legge che si autonega. Ma nel negarsi, e non è un dettaglio da poco, finisce fatalmente per legittimare tutte le forme di tortura che la contorta e ingannevole definizione non arriva a coprire. Amnesty International, esaminando casi conosciuti, ha individuato oltre venti modi di praticare la tortura oggi nel mondo: la maggioranza di questi probabilmente sfuggirebbe al giudizio dei tribunali italiani, se questi dovessero applicare la norma licenziata dal Senato.
Il Parlamento è ancora in tempo per cambiare strada e potrebbe farlo in tempi brevi ricorrendo al copia e incolla dal testo dell’84, frutto di un’onesta ed equilibrata analisi dei bisogni normativi. Avrebbe fra l’altro il plauso di tutti, ma proprio tutti, gli esperti, i giuristi, gli attivisti “addetti ai lavori”, oggi invece schierati compattamente contro la scelta compiuta al Senato. Farebbe anche un grande favore alle forze di polizia, al momento chiuse in un anacronistico isolamento e irriducibili – questo dice in sostanza il voto al Senato dell’altro giorno – alle norme sugli abusi di potere tipiche delle democrazie moderne.
* Comitato Giustizia e Verità per Genova