«Non c’è niente da capire solo da combattere» disse Manuel Valls dopo la strage al Bataclan, rivendicata dall’Isis. «Una frase profondamente sbagliata» dice lo scrittore catalano Javier Cercas. «Il problema è che non si può veramente combattere senza capire. Non bastano gli eserciti, non basta la polizia. Bisogna capire. Capire non significa affatto giustificare, al contrario significa dare a noi stessi le armi per combattere tutto questo. Se non capiamo perché un ragazzo di vent’anni compie un gesto così folle è impossibile mettere fine a questa pazzia», ha detto l’autore di Anatomia di un istante, intervistato da La Stampa. Poche parole, essenziali, quelle dell’autore di tanti romanzi che cercano di indagare l’invisibile, il latente, ciò che le cronache non riescono a dire di stragi, attentati, dittature. Come può accadere che un ragazzino si faccia esplodere uccidendo adolescenti a manciate durante un concerto come è accaduto a Manchester? Cosa è successo nella mente di quel ventenne che alla guida di un furgone si è lanciato su turisti e passanti come fossero birilli, oggetti e non persone in carne ed ossa? La cosmopolita Barcellona il 26 agosto torna a manifestare, ripetendo: «Non abbiamo paura». La coraggiosa reazione della città catalana, che ha una lunga tradizione di ospitalità e accoglienza, è raccontata in queste pagine dalla viva voce dell’assessore Francesca Bria.
Da Barcellona è arrivato in redazione anche il toccante messaggio del soprano Romina Krieger, che come tanti ragazzi italiani si è trasferita nella città catalana, per passione e lavoro. «Anni fa, Jaume Sisa, scrisse una canzone: “Han tancat la Rambla”, hanno chiuso la Rambla, hanno cacciato tutti, hanno spogliato gli alberi da uccelli e fiori», ricorda Romina. «17 agosto 2017: la Rambla ha chiuso a causa dell’orrore, del crimine orribile. Ma oggi? Oggi la città è viva, combatte, si rialza e non è disposta a cedere. La Rambla stamattina era di nuovo piena, per non dimenticare, per non arrendersi. Quel mezzo chilometro di via pedonale, simbolo della città, ha subito urlato “no temim por”, non abbiamo paura. No! Non abbiamo paura. Non si può chiudere uno spazio libero, non si può smettere di immaginare il futuro». «Non chiuderemo le porte, non alzeremo muri», le fa eco la sindaca di Barcellona Ada Colau, rifiutando la xenofobia delle destre che strumentalizzano la paura per cercare di criminalizzare l’immigrazione. La capacità di reagire è fondamentale per uscire dalla paralisi indotta dal terrore, lasciando fluire il dolore.
Per saper reagire è necessario capire. Tornano a risuonare le semplici parole di Javier Cercas. È urgente capire non solo cosa non abbia funzionato nei servizi di intelligence e in quei presidi territoriali che avevano avuto l’opportunità di cogliere segnali di profondo malessere in alcuni ragazzi della cosiddetta cellula spagnola che al grido di Allah Akbar ha ucciso e ferito persone inermi. Sono storie che si ripetono. In Spagna, in Inghilterra, come in Italia. L’abbiamo scritto nel caso della coppia dei giovani foreign fighters partiti dalla provincia torinese per andare a combattere per l’Isis, come nel caso del giovane italo marocchino, partito da Bologna, per prendere parte all’attacco terroristico sul London Bridge. La domanda che ritorna è, come può un ragazzino arrivare a perdere completamente gli affetti e il rapporto con l’umano al punto da uccidere in modo freddo e pianificato in nome di dio? Come possono dei compagni di scuola diventare un gruppo psicotico che compie azioni criminali sulla base di una ideologia religiosa che inneggia alla reconquista di Al Andalus, dove vissero i Mori dal 711 al 1492? Loro, ma neanche noi, ci ricordiamo che l’Andalusia per secoli è stata una straordinaria fucina culturale araba e musulmana. Per cercare di capire occorre tornare a interrogare la storia facendo i conti con quelle sedicenti radici cristiane dell’Europa che hanno prodotto feroci crociate e innumerevoli figure di martiri guerrieri. Occorre fare i conti con il passato colonialista e il persistente razzismo che si nasconde sotto il nostro orgoglioso eurocentrismo. Un lavoro immane. Intanto, ci siamo detti, potremmo andare a vedere la mappa degli attacchi terroristici nel mondo, potremmo cominciare andando a vedere quel che accade a Ouagadougou, a Bamako, a Nairobi e a Mogadiscio oppure in Yemen. La settimana scorsa l’Isis, Al Qaeda e Boko Haram hanno fatto stragi di civili, ma i giornali italiani non ne parlano, domandiamoci almeno perché.