“Sciopero della fame!”, “Riunite le nostre famiglie!”, “Freedom of movement!”, libertà di movimento! È quello che c’è scritto sui cartelli che agitano in aria per protesta mentre stanno marciando per le strade d’Atene. Le accuse sono rivolte alla Germania. I silenzi sono siriani, afghani, iracheni ed il limbo è ellenico. L’Europa per molti migranti si è rivelata solo un vicolo cieco, dopo la chiusura della rotta balcanica nel 2016.
Decine di migranti nella capitale greca hanno deciso di cominciare un digiuno di protesta sei giorni fa, perché i governi europei non gli permettono di ricongiungersi con le loro famiglie, i cui membri sono in altri stati d’Europa. Scrivono ogni giorno, bianco su nero, su uno striscione dove c’è scritto “hunger strike”, sciopero della fame, il numero dei giorni da cui non toccano cibo. È ormai passato un anno da quando sono bloccati ad Atene e non credono più a nessuna promessa. Così ogni giorno si svegliano e cominciano a protestare. «Stare fermi qui, immobili in Grecia», dicono, «è come stare in una prigione a cielo aperto». Chiusi in gabbia tra i confini del Vecchio Continente, i profughi marciano ogni giorno, tra la piazza del Parlamento e nei pressi dell’ambasciata tedesca ad Atene. Poi tornano nelle tende che hanno montato per strada, nei parchi, una stoffa sul cemento che è la loro unica casa. Finora solo a 4500 persone è stato permesso di riunirsi con i membri delle loro famiglie in Germania, 3mila di loro avevano meno di 18 anni.
La patria di quella che chiamavano Mama Merkel oggi è sotto accusa. Tobias Plate, portavoce del ministro dell’Interno tedesco, ha detto che i ritardi per i ricongiungimenti sono dovuti a problemi di natura organizzativa, ma anche a mancati accordi con le autorità greche. Se il ricongiungimento familiare sia permesso o meno, rimane una questione controversa e di cui i vertici politici addetti alla soluzione del problema preferiscono non parlare. «Non è mai stato ufficialmente confermato, è solo una voce di corridoio, ma alle autorità per l’asilo in Grecia, è stato riferito che c’era una quota limite per i ricongiungimenti: 70 persone» ha detto Salinia Stroux, della Support Aegean, un’ong dell’isola di Chios.
Negli ultimi mesi dalla Grecia alla Germania sono state trasferite solo 80 persone. I ritardi sull’applicazione del protocollo della Dublino III sono dovuti alla severità germanica e alla lentezza della burocrazia greca. Per Barbara Lochbihler, del Parlamento Europeo, la colpa è pari, bilanciata tra le due parti: «I campi greci sono strapieni, le famiglie spesso hanno cinque figli a testa, possiamo immaginare il prezzo che stanno pagando. Non hanno soldi e solo waiting list, solo liste d’attesa».
«Riunirli ai loro cari dovrebbe essere una priorità umanitaria”, ha detto Boris Cheshirkov, dell’Unhcr, ma nei fatti non si fa niente per vagliare le 9300 richieste di ricongiungimento che i migranti hanno presentato nell’ultimo anno. A Lesbos, nel campo profughi che potrebbe ospitare un massimo di duemila persone, i migranti che abitano lo stabile sono oltre cinquemila. La situazione è critica nelle isole, ha confermato il ministro della migrazione Yiannis Mouzalas. I profughi bloccati in Grecia in totale sono 62mila e nella maggior parte dei casi si tratta di minori. Le fughe sono sempre più disperate, ma continuano. Ieri a Tessalonica un uomo è stato raggiunto dai colpi di rivoltella della polizia, quando con il suo camion non si è fermato ad effettuare i controlli per strada: trasportava illegalmente dieci pakistani nel furgone. Ora sono tutti in ospedale.
Dall’aprile 2016, ovvero un mese dopo l’accordo con la Turchia di Erdogan, sono stati 45.942 i migranti che hanno comunque tentato la traversata via mare verso la Grecia. Solo pochi giorni fa una barca è affondata a Kalymnos, ma dispersi e morti non hanno fatto notizia, come altri due incidenti non registrati, di due gommoni che tentavano di raggiungere le spiagge dell’isola di Chios in questo novembre. Il sindaco dell’isola, Michalis Vournous, è oggi ad Atene per una commissione parlamentare, per ricordare agli abitanti della penisola che l’economia locale affonda, proprio come i mezzi di fortuna utilizzati dai profughi, per cui nei campi non c’è più spazio.