L’offensiva di Erdogan nel nord della Siria prende di mira non solo ospedali e infrastrutture, ma anche templi e siti storici, in violazione del diritto internazionale. L’obiettivo? Annientare la cultura del popolo curdo, e costringerlo ad una migrazione forzata. Mentre aumentano le vittime civili

Il tempio di Ain Dara, tremila anni di storia, a cavallo tra età del bronzo e del ferro e memoria del regno siro-ittita, è stato polverizzato dalle bombe di un caccia turco alla fine di gennaio. Ne resta ben poco, sebbene sia al momento difficile fare un bilancio preciso dei danni: 77 chilometri a nord-ovest di Aleppo, alle porte di Afrin – il cantone curdo siriano dal 20 gennaio target dell’operazione turca “Ramo d’ulivo” – il tempio era stato scoperto quasi per caso negli anni 50 e riportato alla luce trent’anni dopo dal Dipartimento siriano di antichità.
Tra i più grandi siti siriani, considerato la chiave per leggere la scomparsa struttura del tempio di Salomone a Gerusalemme, era noto per le sue statue di leoni e sfingi che, in fila, disegnavano il perimetro del tempio e per le impronte scolpite a terra, simbolo del passaggio degli dei. Un tesoro unico, ridotto in macerie dalla politica di potenza turca.

L’operazione, annunciata da tempo dal presidente turco Erdogan, ha nel mirino il cantone più occidentale di Rojava, Afrin, città di 500mila persone – di cui la metà sfollati da Idlib, Raqqa, Azaz – e distretto in cui ne risiedono oltre 1,2 milioni. Contro la comunità si sta abbattendo una forza di fuoco che colpisce da più direzioni: dal cielo l’aviazione e da terra gli incessanti colpi di artiglieria dell’esercito di Ankara a copertura dell’avanzata di 25mila miliziani di diversi gruppi di opposizione a Damasco, identificati come unità dell’Esercito libero mescolati a islamisti di varie affiliazioni (secondo le unità di difesa curde, Ypg/Ypj, del gruppo salafita Ahrar al-Sham, dei qaedisti dell’ex al-Nusra e anche delle fila Isis).

La sproporzione di forza non ha finora permesso ai turchi un’avanzata reale sul terreno, a difendere Afrin sono arrivati combattenti di diverse etnie e confessioni da tutto il nord della Siria. Ma se a pagare il prezzo dell’offensiva sono i civili, nel mirino di Erdogan c’è qualcosa che va al di là dell’imposizione della propria egemonia nel nord della Siria: c’è la definitiva cancellazione di un progetto politico – il confederalismo democratico – che trova le sue radici nella storia e la tradizione sociale curda. Una regione storicamente pluralista…

L’articolo di Chiara Cruciati prosegue su Left in edicola


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