Luke Gibson è un ecologo americano. Ha 35 anni e ha lavorato fino a poco tempo fa all’università di Hong Kong, la città cinese che gode di speciali privilegi. Poi è arrivata da Shenzhen, città nel cuore della Repubblica popolare cinese, e per la precisione dalla Southern University of Science and Technology (Sustech) la proposta della vita: ti nominiamo professore associato e per svolgere le tue ricerche sull’Himalaya, sul Plateau del Qinghai, o nel delta del fiume delle Perle -, ti mettiamo a disposizione 10 milioni di yuan (1,5 milioni di euro). Come si fa a rinunciare a una cifra che è 40 volte maggiore del budget che hai a disposizione a Hong Kong, con la quale puoi arruolare almeno quattro giovani post-doc?
Luke Gibson ha accettato e ora è a Shenzhen, alla fine di un percorso uguale e opposto a quello che molti “cervelli” cinesi hanno intrapreso in passato: dal Paese del Dragone agli Stati Uniti d’America. Non è il solo, Luke Gibson. In un suo recente articolo la rivista americana Science cita il caso di un altro giovane americano, Marko Krčo, un PhD alla Cornell university, reclutato dall’Osservatorio astronomico nazionale dell’Accademia cinese delle scienze a Pechino con la stessa tecnica: molti soldi e splendide opportunità di carriera.
Ma noi, a nostra volta, potremmo citare una lettera inviata da un fisico cinese, il professor Wei Wang, a molti colleghi occidentali, tra cui l’italiana Lucia Votano, che è stata alla direzione del Laboratorio nazionale del Gran Sasso, e che ora collabora a un grande progetto di ricerca sui neutrini in Cina, che diceva più o meno: «Carissimi, nei prossimi 3-5 anni la Scuola di fisica dell’università di Guangzhou offre 70 posizioni nella nostra materia. E altrettanto farà la Scuola di fisica a Zhuhai. Sono tante, 140 posizioni. Noi vogliamo solo il meglio e con i nostri studenti non riusciamo a coprire questa offerta. Dite ai vostri ragazzi ma anche ai vostri senior di fare domande. Abbiamo una quantità di soldi a disposizione che stupisce anche noi. In alcuni casi possiamo pagare anche il viaggio a chi vuole venire qui per sostenere il colloquio. In altri termini, scienziati di tutto il mondo: venite in Cina. Troverete condizioni uniche.
Cosa sta succedendo? Già in passato Left ha raccontato di questo flusso inedito di “cervelli” verso la Cina. Un esodo fisiologico, visto che da un quarto di secolo Pechino aumenta gli investimenti in ricerca e sviluppo (R&s) a un ritmo doppio dell’incremento del prodotto interno lordo. E sì che quest’ultimo, da 25 anni, è il maggiore del pianeta. Nel 2018 la Cina spenderà l’equivalente di 405 miliardi di euro in R&s. Una cifra non molto distante da quella degli Stati Uniti (472 miliardi di euro), superiore a quella dell’intera Unione europea e 16 volte maggiore degli investimenti italiani (25 miliardi di euro).
Sono molti anni, dunque, che i soldi per la ricerca in Cina ci sono e ce ne sono più che altrove. Ma è solo dallo scorso 22 maggio che il ministro della Scienza e della Tecnologia ha reso pubbliche le linee guida che incoraggiano centri governativi, università e laboratori a prendere contatto con esperti per attrarre scienziati stranieri e offrire loro posizioni a tempo indeterminato in Cina. È la prima volta che in maniera esplicita Pechino mette a disposizione risorse pubbliche per ricercatori stranieri che possono così diventare “strutturati” (ovvero assumere una posizione ufficiale, al pari dei colleghi cinesi) nel sistema di ricerca e universitario del grande Paese asiatico. Un’apertura al mondo senza precedenti da parte della Cina. Semplicemente inconcepibile anche solo qualche anno fa. Perché questa svolta?
In realtà, dovremmo dire, perché questa nuova accelerazione? Perché sono quasi trent’anni che la Cina persegue con coerenza e sistematicità un grande progetto: trasformarsi da paese del Terzo mondo con un sistema produttivo arretrato e con capacità di innovazione prossima a zero in Paese leader del pianeta dell’economia della conoscenza. E per raggiungere questo obiettivo non c’è altra strada che diventare leader al mondo in scienza e tecnologia. In questi ultimi tre decenni la Cina ha mantenuto dritta la barra e, come abbiamo detto, con notevole sistematicità ha accresciuto gli investimenti in R&s a un ritmo doppio rispetto alla crescita della sua ricchezza.
In altri termini, la Cina crede nella scienza e da tre decenni lo dimostra. Si prevede, infatti, che nei prossimi cinque o sei anni supererà, per quantità di risorse investite, anche gli Stati Uniti e diventerà la maggiore potenza scientifica e tecnologica mondiale. In realtà già oggi è il Paese che vanta il maggior numero di scienziati al meno: all’incirca 1,5 milioni. Già, perché anche le università e la formazione scientifica dei giovani cinesi si sono enormemente sviluppate in questo periodo.
Ma se vuoi diventare leader al mondo in scienza e tecnologia non basta avere molti soldi e molti ricercatori. Devi avere anche i migliori ricercatori e i migliori progetti in tutta la gamma della ricerca: di base, applicata e nello sviluppo tecnologico. Realizzare progetti d’avanguardia è relativamente semplice. Basta chiamare i migliori al mondo, chiedere loro di redigere programmi di frontiera e finanziarli. Da qualche anno, proseguendo con coerenza verso il suo obiettivo, la Cina lo sta facendo. Lucia Votano è un esempio di questa politica. Si sta mettendo a punto in Cina il più grande centro di studio dei neutrini al mondo e lei, che ha lavorato in questo settore al Gran Sasso e non solo, è stata cooptata insieme ad altri fisici occidentali come consulente.
Ma non bastano le consulenze e le collaborazioni. Per avere i migliori ricercatori al mondo deve battere due strade convergenti. Formare i tuoi scienziati alle migliori scuole del mondo e convincerli poi a lavorare per te. Ma serve anche – e forse soprattutto – fare in modo che ricercatori stranieri, i più in gamba, vengano da te a lavorare, col duplice compito di insegnare ed effettuare ricerca di punta. E c’è un unico modo per attrarre scienziati da ogni parte del mondo: dare loro molti fondi per la ricerca in cui credono e reali opportunità di carriera, oltre che un ottimo stipendio. Finora i Paesi in grado di fare questa operazione erano pochi. Gli Stati Uniti. Il Regno Unito in certi settori. La Germania e la Francia, con minori capacità. Ora entra in scena la Cina. Che dapprima ha lavorato, bene, per il ritorno dei propri “cervelli” emigranti negli Usa o, molto meno, in Europa. E ora ha deciso lo strappo finale: consentire agli scienziati stranieri di entrare a pieno titolo e non più solo come consulenti nel proprio sistema di ricerca e di alta formazione.
Ecco perché la Cina sta stendendo loro tappeti d’oro. Non è un’operazione semplice. Neppure da immaginare. Il Giappone, per esempio, non l’ha mai davvero tentata. Men che meno l’Italia, che, anzi, è uno dei pochi Paesi al mondo che, di fatto se non di diritto, respinge alla frontiera i “cervelli” stranieri. Ma non è un’impresa semplice soprattutto da realizzare. Potrebbero non bastare le carote dei fondi, delle infrastrutture, dei progetti avveniristici. Per attrarre ricercatori stranieri, un Paese si deve dimostrare complessivamente ospitale. Uno scienziato per lavorare, soprattutto nella ricerca di base, deve sentirsi a proprio agio. E non tutte le condizioni al contorno in Cina sono in grado di mettere in condizione di agio un occidentale. Per esempio, la mancanza di libertà. La Cina oscura molti siti internet. E questo non piace a chi è abituato a navigare dove e come gli pare.
Ecco, dunque, l’ultima grande sfida per la Cina. Riuscire a coniugare le asprezze del regime con le richieste degli stranieri che vuole arruolare. Per farlo, probabilmente, non bastano i soldi, neppure se sono tanti, e non bastano i laboratori, neppure se sono i meglio attrezzati del mondo.