La Delta Lady è tornata. Soprannominata così per una canzone a lei dedicata da Leon Russell nel lontano 1970, Rita Coolidge ci regala uno splendido album, il suo ventisettesimo, dal titolo Safe In The Arms Of Time. Una delle figure più importanti della musica contemporanea, Rita Coolidge dopo aver partecipato come corista al tour di Joe Cocker, partecipando al famoso live Mad Dogs & The Englishmen, inizia la sua carriera solista nel 1970 con un primo album importantissimo dove il sound elettroacustico in voga all’epoca viene bilanciato dalla potente e calda interpretazione dell’artista che sa scegliere già a venticinque anni autori e musicisti. Bella e affascinante, dopo aver cantato nei cori di “Love The One You’re With” farà perdere la testa a Stephen Stills – che gli avrebbe suonato le chitarre acustiche nell’album d’esordio – e a Graham Nash, a tal punto che voci insistenti nel music business addossarono – in parte errate – queste liaison allo scioglimento del supergruppo CSN&Y, come David Crosby racconterà, in una straordinaria metafora western musicale intitolata “Cowboy Movie” del 1971.
Rita Coolidge, come testimonia appassionatamente la sua recente autobiografia, è sempre stata una musicista di classe, non prolifica come altre sue colleghe, ma senz’altro ai vertici delle classifiche raggiungendo assieme all’ex-marito, attore e cantante country, Kris Kristofferson, il primo posto nel 1973 con l’album Full Moon e vincendo due Grammy Award, il primo nel 1974, per la performance di “From The Bottle To The Bottom”, e il secondo nel 1976 con la canzone “Lover Please”. La carriera è così continuata con altri numerosi album e collaborazioni arrivando a Robbie Robertson (anche lui di origini indiane) per un progetto dedicato ai nativi americani e che la vide protagonista proprio qui in Italia, ad Agrigento, nella Valle dei Templi (11 febbraio 1995) nel concerto della Concordia, ispirato proprio dal tempio greco, assieme allo scomparso poeta, cantante e militante indiano John Trudell, al trio Ulali (anche loro coriste di origini Cherokee) e alla altrettanto famosa performer Buffy St. Marie, indimenticata songwriter del brano portante del film Soldato Blu.
La Coolidge si ripresenta oggi con un album maturo, pieno di storia e ricordi, sapientemente arrangiato e prodotto con sonorità “classic rock “, blues e ballads. Prodotto da Ross Hogarth e registrato ai Sunset Sound Recorders di Los Angeles, un album a nome di una delle icone piu importanti della musica non poteva non essere creato in California, proprio negli stessi studi dove la cantante di Lafayette, Tennessee, aveva registrato il suo primo disco. «Tornare in quello studio è stato un viaggio nel passato. In ogni corridoio c’era un ricordo», dice la cantante, proseguendo «l’intento era quello di fare un disco che avesse lo stesso fascino dei miei primi album. Fare un disco di radici che raccontasse le mie». La Coolidge si avvale così di David Grissom alle chitarre, del mitico Bob Glaub al basso e di due turnisti d’eccezione quali Brian MacLead alla batteria e John “JT” Thomas alle tastiere e al piano. Oltre a loro una serie di altri strumentisti che arricchiscono senza mai strafare un momento sonoro lungo dodici brani, passando da malinconie pianistiche a decisi rock-blues; da brani permeati da qualche goccia di nostalgia a episodi di consapevolezza umana che trovano riscontro nella certezza della voce, nell’impianto delle composizioni, negli interventi ricchi delle chitarre e delle voci; nell’alternarsi dei groove e nell’ingresso del violoncello che stempera le atmosfere.
Al cospetto della cantante una schiera di songwriters altrettanto notevole, a partire da Keb Mo’, bluesman americano di grande spessore col quale la Coolidge scrive “Walking On Water” e “Naked All Night”. David Grissom e Chris Stapleton firmano invece il brano d’apertura, “Satisfied”, una potente ballata che ci racconta che «la vita è una strada tortuosa con curve e ponti che svoltano e girano. Il tempo uno scontro nello schiocco delle dita. Colpiscilo e guardalo bruciare. Un tempo trovammo riparo nelle braccia della luce della luna. Troppe passeggiate sulle recinzioni, Troppi “Non so”. E io…desidero per te pace sulle ali dell’amore. In qualsiasi cosa tu cercherai spero tu possa trovare le risposte alle domande nel tuo cuore e forse sarai soddisfatto. Certe volte mi viene da piangere. Altre volte vorrei ridere. Sono appesa al tuo ricordo come una vecchia fotografia sbiadita. Avrei tante cose da dirti se tu fossi ancora qui. Mi dispiace averti ferito. Mi dispiace averti buttato giù». Stephen Bruton che già negli anni 70 aveva lavorato con la Coolidge torna come autore con “Spirit World” dove è ancora protagonista la magistrale slide guitar di Joey Landreth, stella nascente del rock (già con The Bros, un combo di “americana” e folk nato e cresciuto in Canada).
Un lavoro di cesello durato diversi mesi da parte di Hogarth che già qualche anno addietro aveva iniziato a cercare canzoni, sondare amici e autori per lavorare a questo importante ritorno artistico (Hogarth è uno dei più quotati produttori sulla scena e ha vinto un Grammy quest’anno per l’album dell’inedito duo Taj Mahal/Keb Mo’). Tra i diversi autori anchel Graham Nash che aveva ospitato la cantante, non solo nel suo cuore, ma anche sul primo album Songs For Beginners. Il brano dell’artista inglese , firmato con lo storico batterista Russell Kunkel, si intitola “Doing Fine Without You” e vede ospite al banjo John McFee, già con i Doobie Brothers e poi strumentista con diversi artisti quali Costello, Grateful Dead, Emmylou Harris e altri. La Coolidge è profonda interprete di ”Van Gogh”, scritta da Tom Douglas e Allen Shamblin, dove la poesia e le linee melodiche ci proiettano in una dimensione altra, ad immaginare i colori, e a raccontarci dell’arte e della malattia che traspare nei dipinti del pittore olandese, e di quella bellezza, quella della vita, forse, a volte, troppo grande, da poter sempre essere rappresentata nei quadri. La cantante poi collabora su “You Can Fall In Love” con l’ex batterista di Tom Petty, Stan Lynch, dove il racconto narra di un incontro con una vecchia fiamma incarnando così uno dei leit-motiv dell’album: non è mai troppo tardi.
Lynch a sua volta scrive anche il brano di chiusura dell’album, Please Grow Old With Me, dove il discorso di condivisione e una seconda possibilità per farsi perdonare, vengono esaltati da una dolcissima e breve “lullaby”. “Over You”, “We Are Blood”, “Rainbow”, “The Things We Carry”, sono gli altri titoli di un album che nelle intenzioni del produttore e dell’artista vogliono raccontare dell’amore, della spiritualità e della legittimazione perché la vita è un lavoro interiore che inizia con “me” e diventa “noi”. Un album che riporta a brillare la stella della Coolidge nell’universo musicale, confermando con questo lavoro la incredibile possibilità che la sua timbrica, l’approccio e l’interpretazione hanno di imprimere a brani, apparentemente di “maniera”, una forte impronta personale. Un album che si discosta da quelli pop e country del passato, che recupera certamente il suono americano con le slide guitars in evidenza, le voci, le armonie vocali e tutto quel sound che fin dai primi 70 ci aveva accompagnato assieme ad altri capolavori di colleghe forse più blasonate. Ma è di legittimazione non solo artistica che vogliamo ritornare a scrivere.
Legittimazione umana, crescita personale e identità ben salda sapendo che l’artista ormai ha superato quell’affronto, quell’ingiusta violenza perpetrata nel tempo, che la volle autrice mai riconosciuta ufficialmente di uno dei pezzi più celebri della musica rock, “Layla”. Forse inesperta all’epoca, fu “raggirata” nel momento in cui, dopo aver scritto la parte strumentale al piano, non venne citata come autrice del brano che sarebbe diventato uno degli “anthem” del chitarrista inglese Eric Clapton che lo prese “in prestito” dal batterista Jim Gordon. I due all’epoca militavano nella formazione Derek and The Dominoes e il demo di quella coda , intitolata provvisoriamente “Time”, era stato il frutto di una collaborazione che la coppia, di nome e di fatto, aveva registrato insieme. Coolidge dopo aver ascoltato incidentalmente il brano alla radio chiese al suo producer, David Anderle, di interpellare Robert Stigwood, boss dell’omonima etichetta che aveva pubblicato la canzone, ma la risposta fu «vuoi davvero citare Stiggy? Chi sei tu? Una ragazza che canta! Non avresti il denaro per affrontare la causa». Una persecuzione lunga tutta la carriera. Come per i suoi “antenati”. Ma oggi sappiamo che quella ”Layla” non ha solo padri ma anche una madre. Indiana. Salva «nelle braccia del tempo» a raccontarci che se è arte vera, prima o poi verrà riconosciuta.