Il sindaco di Riace Domenico Lucano protesta dal 2 agosto con uno sciopero della fame per il mancato trasferimento di fondi al paese che è diventato in tutto il mondo un modello di accoglienza dei migranti. A rischio la sorte di 165 rifugiati di cui 50 bambini. Pubblichiamo l’intervista uscita su Left del 29 giugno 2018.
Provo ad avvicinarmi alle prime file durante il suo intervento in occasione di una manifestazione che si è tenuta di recente a Reggio Calabria in ricordo di Soumayla Sacko, il sindacalista maliano ucciso il 2 giugno scorso. Si emoziona, sorride, incespica con le parole, preferisce leggere. La sua voce sottile, protetta dalla chiarezza interiore, è sommersa da una serie ininterrotta di applausi. Pochi lo ascoltano con attenzione ma non importa. Importa esserci. Importa la biografia, la sostanza, l’intima certezza che si è di fronte a un uomo che, sulla scia del poeta Robert Frost, ha scelto di percorrere «la strada meno battuta». Una scelta che arriva da lontano, perché Domenico Lucano «fin dai primordi ha lottato per un mondo migliore». Una frase solenne che in bocca a qualche intellettuale soft potrebbe suonare come vizio retorico, ma se a dirlo è il sindaco di Riace tutto cambia. Neppure il più fanatico reazionario potrebbe attribuirgli la patente di radical chic. “Mimmo” Lucano, che di certo non ha bisogno di presentazioni, ha inventato una vera e propria filosofia dell’accoglienza. Il «modello Riace» continua a stupire e innervosire l’establishment e i seguaci del cinismo. Nel piccolo paese che amministra c’è davvero posto per tutti: gli ultimi, gli sfruttati, i senza voce. Il suo obiettivo, infatti, è costruire una famiglia sempre più inclusiva, dove le differenze di sesso, di nazionalità e del colore della pelle perdono di significato. Ecco perché colui che è stato insegnante del laboratorio di chimica, da anni «sorvegliato speciale», è stato offeso dall’attuale ministro degli Interni che lo definiva uno «zero», e quando in un attimo di pausa gli chiedo dove trova il coraggio, si limita a indicarmi con il dito i volti della sofferenza.
Ma Salvini le fa paura?
Non ho paura di lui. È un uomo con le sue fragilità. Non l’ho mai incontrato né ci tengo a farlo. Però sono terrorizzato dal suo pensiero. Anche perché viene salutato con entusiasmo da una buona fetta della popolazione. Tanta gente della mia terra, com’è noto, ha premiato alle urne l’odio e l’intolleranza, e le politiche leghiste continuano a mietere successi. Non so dove andremo a finire di questo passo.
Che fare?
Difficile rispondere. È tutto così frantumato, disarticolato, atomistico. Non esiste una degna opposizione in Parlamento che possa contrastare la deriva xenofoba di queste ultime ore. Non dimentichiamo le scelte adoperate dai precedenti governi in tema di sicurezza e immigrazione, penso all’indirizzo muscolare di Minniti. Ciò che possiamo fare è combattere in favore degli oppressi e con ogni mezzo lecito. Insomma, siamo soli e abbandonati. La parola “resistenza” viene praticata da quattro gatti. Il resto è chiacchiera.
Quattro gatti che non hanno vita facile?
Mi indagano, mi controllano. La mia immagine dà fastidio. Lo trovo incredibile. Mi impegno per il bene, per l’«amore umanitario», per la pace, per asciugare lacrime innocenti che bussano con insistenza alle nostre porte e mi trattano come un criminale. Per questo oggi bisogna lottare non solo contro la «mafia ufficiale» ma anche contro quella mafiosità che serpeggia nelle istituzioni.
…E contro l’indifferenza.
Sì. I tristi episodi di razzismo, sempre più dilaganti, che a volte ci suggeriscono di unirci e protestare collettivamente, ci obbligano a scegliere. Non è più tempo per coltivare una zona grigia o sedere dietro le quinte. Non è il tempo di una terza via, di tiepido moderatismo, di neutralità. Dobbiamo dire che stiamo dalla parte delle nuove vittime. Dobbiamo urlare con forza che prima di ogni bilancio, di ogni numero, di ogni affaire vengono le persone senza stupide classificazioni.
Il problema, quindi, è «prepolitico»?
Siamo arrivati a un punto in cui occorre rivisitare i nostri fondamenti, rispolverare le pagine della Costituzione, riprendere le parole e gli accenti di chi ha lottato contro le vecchie forme della dittatura. In breve, servirebbe riutilizzare quel lessico che viene quotidianamente sbeffeggiato dall’incultura che ci pervade. Contro la nuova idea di apartheid dobbiamo ribadire la verità dell’inclusione. Come dico spesso, essere nati in Italia non è un merito ma è frutto del caso. Quindi nessuno può dirsi migliore di un altro per motivi di nascita e curriculum.
Sta esplodendo un nuovo fascismo?
Se pensiamo al censimento dei Rom e ad altre porcate mi verrebbe di rispondere a bruciapelo di sì. Ci vuole, inoltre, un bel coraggio a voltare le spalle a uomini, donne e bambini in balia di loro stessi, in un mare che da un momento all’altro potrebbe ucciderli, come è già accaduto e come temo si verificherà in futuro. Nondimeno, siamo in un’altra epoca e con altre narrazioni. Ripeto: bisogna scegliere. E non tra un centro-sinistra e un centro-destra. Ma tra i fondamentali e la barbarie che imperversa. Solo dopo aver vivificato i principi è possibile ripristinare una proficua dialettica tra le varie forze in campo.
D’accordo la lotta quotidiana per gli oppressi. Ma cosa servirebbe per cambiare il vento e respingere l’egemonia culturale della destra razzista?
Credo che tutto parta dal linguaggio. La cosa inquietante è che le volgarità propagandistiche che ci hanno accompagnato in questi ultimi mesi e anni, hanno assunto una veste istituzionale. Forse è questa la vera novità. Di solito chi assume incarichi di governo e ricopre ruoli di una certa responsabilità prova a rispettare l’appuntamento con la serietà, con il buon senso e si rivela rispettoso delle opinioni e delle storie o tradizioni altrui, convinto che la repubblica e la comunità si nutrono di una cooperazione civile sempre rivolta verso le aperture e non le barriere. In questa fase, al contrario, da noi come in alcune realtà europee, soffia il vento del male e sarà molto difficile riaprire una partita finora dominata dall’inganno.