Mentre le pagine sportive dei quotidiani ospitano interventi sull’allarme razzismo in Serie A, le cose non vanno meglio in periferia. Nei campetti dove ogni weekend si confrontano le squadre dei campionati cosiddetti minori, o amatoriali, gli episodi di intolleranza e discriminazione sono all’ordine del giorno. Anche tra i più piccoli. È dello scorso novembre il caso della partita persa 3-0 a tavolino dal Cartura contro il Pegolotte, in Veneto. L’arbitro ha deciso di non soprassedere ad insulti razzisti e incitamenti alla violenza dei genitori sugli spalti nei confronti di un baby calciatore. Di undici anni. Un caso forse più unico che raro di partita sospesa per questi motivi, con quel “pugno duro” che continua a chiedere Ancelotti, dopo l’amara vicenda di Koulibaly durante Inter-Napoli lo scorso 26 dicembre.
Un caso sacrosanto, da prendere ad esempio. Certo. Ma solo chi fantastica sullo sport, immaginandolo come una galassia del tutto isolata dal mondo reale, può pensare di fermare la xenofobia negli stadi solo con multe e punizioni, senza un lavoro quotidiano nel rilancio di una cultura antirazzista, anche nei campi di pallone.
Ossia la mission che – tra le altre realtà – persegue la Uisp. «Le esternazioni indulgenti di Salvini sui cori razzisti diventano una giustificazione all’intolleranza che si manifesta nei campetti di provincia», denuncia Carlo Balestri, responsabile politiche internazionali dell’associazione sportiva amatoriale, che conta oltre un milione e trecentomila tesserati e più di 17 mila società affiliate (dati 2017).
«Proprio per arginare questi fenomeni – spiega – portiamo avanti un’opera capillare nei territori». I progetti sono molti, in tutto il Paese. Solo per fare alcuni esempi…
Esiste un movimento sportivo diffuso, da Nord a Sud, che rifiuta il calcio miliardario e usa lo sport come mezzo di inclusione, coesione e trasformazione della società. Ecco come si oppone all’apartheid propagato dal leader leghista via twitter e attraverso la legge Sicurezza