Esiste una verità del corpo che si fa racconto. Un corpo indifeso, nudo, da cui è scomparsa la vita e il pudore. Un corpo da mostrare o da nascondere? Si è aperta così l’anteprima dello spettacolo La notte di Antigone, messo in scena al Campoteatrale a Milano dalla compagnia Eco di Fondo.
Quel corpo tutta la platea lo ha immaginato con il viso scarno e tumefatto dai lividi, come siamo stati abituati a vederlo nelle foto circolate sulla stampa e in tv, perché era quello di Stefano Cucchi. L’Antigone di questa storia è Ilaria, la sorella che, come la protagonista del mito greco di Sofocle, ha combattuto (e combatte) per restituire giustizia e verità al fratello ucciso.
Anche se nessuno ha mai detto i loro nomi per tutta la tragedia, tutti ne hanno immaginato i volti. I volti di Ilaria e Stefano e dei loro genitori. E sono state le loro facce a traghettare il racconto, ma avrebbero potuto essere anche quelle di Hiadi Giuliani e Carlo o di Federico Aldovrandi e di sua madre Patrizia Moretti.
Lo spettacolo si concentra sul racconto, misto di immaginazione e realtà, della notte in cui Ilaria ha deciso che avrebbe mostrato al mondo le foto del corpo del fratello. Proprio quelle immagini davanti alle quali è stato impossibile riuscire a continuare a sostenere che fosse caduto dalle scale o chissà cos’altro.
È combattuta, arrabbiata, rievoca suo fratello in modo umano e quindi imperfetto. Non come un angelo, ma con tutti i suoi difetti, i non detti e le incomprensioni. Si dilania nel dubbio se sia giusto sottoporlo al processo mediatico che si scatenerà, se sia giusto che tutti gli altri conoscano Stefano. E che lo giudichino.
Lei che quel fratello non è riuscita a proteggerlo e che aveva persino pensato che il carcere magari sarebbe riuscito in ciò in cui comunità, famiglia e Lei avevano fallito. A tratti lo incolpa persino della sua morte. Lui che non le aveva permesso di aiutarlo. Poi però ritorna in sé e si ricorda che qualunque cosa Lui abbia o non abbia fatto, detto, pensato Loro non avrebbero dovuto toccarlo, picchiarlo, abbandonarlo.
Giacomo Ferraù e Giulia Viana hanno riscritto la tragedia di Sofocle interrogandosi, hanno lavorato a questo testo negli ultimi 3 anni ponendosi le domande che ciascuno di noi ascoltando le testimonianze di casi come quello di Stefano si è fatto.
«È una storia ma ne contiene molte altre. Ricorda a tutti che comunque per un caso così tanti altri sono rimasti in sordina e non sempre si è avuta giustizia o verità» spiegano i due drammaturghi e attori. «Sono due concetti contigui verità e giustizia ma spesso non consequenziali. Sono limitrofi, ma è importante sapere se è la giustizia che porta verità o la verità che porta giustizia. Questo è il punto di partenza di ogni Antigone».
Ilaria quella notte deve decidere se avere paura o coraggio, il coraggio di sopportare che la sua vita, quella delle persone a lei care e anche suo fratello siano messi in pubblica piazza, alla gogna, per poter ottenere verità e magari anche giustizia.
Nel mito classico da un lato c’è Antigone che sacrifica sé stessa perché il corpo del fratello Polinice, ritenuto un traditore, trovi una degna sepoltura; dall’altra parte Creonte, colui che detiene il potere e che ha ordinato che il cadavere rimanga insepolto.
«In questo caso» sottolinea Ferraù «l’assioma è opposto. Il Creonte della tragedia esponeva il cadavere, invece adesso si trova ad insabbiare, a dover nascondere. E chi si trova dall’altra parte, Antigone, espone il cadavere, lo dà in pasto al dibattito mediatico, alle bocche di persone che non hanno vissuto la vicenda ma che ne parlano come se la conoscessero».
Le anteprime milanesi della Notte di Antigone avrebbero dovuto essere seguite da un dibattito aperto con il pubblico. Quando gli attori hanno concluso la performance e si sono presi i loro bravi applausi doveva scattare un momento collettivo di riflessione, critica o approvazione. Invece c’è stato silenzio.
Tutti hanno una loro opinione, c’è il complottista che vede casi Cucchi dietro ogni angolo, quello che chiuderebbe le carceri, quell’altro che proprio non riesce a credere che rappresentanti delle Forze dell’ordine siano arrivati a tanto. Il processo (anzi i processi) stabilirà cosa è certo e cosa non lo è.
Quel silenzio significa però qualcosa. Paura, per il crollo della certezza che chi dovrebbe tutelare possa andare così oltre. Dubbio, chissà quanti casi non hanno avuto la loro Antigone e non sono conosciuti? Spaesamento, questo è il rapporto tra Stato e cittadino?
Rispetto a questo Valentina Calderone, presidente di A buon diritto, ci ha detto: «Purtroppo non ci sono statistiche, non si possono studiare i numeri di questa questione. Sono successi e succedono, e più spesso di quanto noi non vorremmo immaginare. Quel che è certo è che negli ultimi anni i casi che sono arrivati a processo sono aumentati e non si parla più di poche e isolate situazioni. Ad esempio, adesso sono in corso due filoni di indagini all’interno di due carceri (Torino e San Gimignano, ndr), in cui per la prima volta in Italia il reato ipotizzato è quello di tortura».
Chi dovrebbe tutelare sbaglia, questo è umano. Non ammissibile, ma può accadere. Ma è il nascondere, l’insabbiare che rende tutto imperdonabile. «Quando chi sbaglia non viene allontanato in quanto indegno della divisa che porta e del compito di tutela della nostra sicurezza» sottolinea ancora la Calderone «allora i dubbi che manchi una giusta autoanalisi vengono».
Uno dei temi che queste storie di Antigoni e Creonti suscita è come mai in Italia si faccia ancora così fatica a passare dalla concezione di pene punitivi a correttive. Nonostante, come ricorda la presidentessa di A buon diritto, sia stato dimostrato da una ricerca condotta dal ministero della Giustizia come il rischio di recidiva tra chi sconti la pena in carcere sia del 70%, mentre tra i detenuti che hanno pagato il loro conto con la giustizia con pene alternative sia solo del 20%.
«Noi come corpo sociale» sottolinea la Calderone «non abbiamo voglia di affrontare temi come la colpa e il reato. E sicuramente il clima politico e culturale orientato agli slogan sulla sicurezza non aiuta questo dibattito. La concezione generale è che sicurezza uguale punizione dura. I numeri dimostrano il contrario e ci alimentiamo di un’idea sbagliata su ciò che è più sicuro per noi».
In fondo occorrerebbe non dimenticare la lezione contenuta nell’art. 27 della nostra Costituzione in cui si parla di pene che debbano tendere alla rieducazione del condannato. Pene non carcere. E di certo non tortura.