L’incontro, o meglio gli incontri, tra due grandi menti rivoluzionarie attente all’infanzia come Gianni Rodari e Loris Malaguzzi avvenne tra il 6 e il 10 marzo del 1972 nella città di Reggio Emilia su invito del Comune, come spiega lo stesso Rodari nell’Antefatto di Grammatica della fantasia. Due personaggi di cui quest’anno ricorre il centenario della nascita (Malaguzzi nacque il 23 febbraio 1920, Rodari il 23 ottobre dello stesso anno).
Fu di Malaguzzi l’idea di organizzare una settimana di formazione per le insegnanti delle scuole dell’infanzia (ex materne), elementari e medie e di avere come ospite d’onore ed eccellente formatore appunto Gianni Rodari: «Tre cose mi fanno ricordare quella settimana come la più bella della mia vita».
La prima fu il manifesto affisso dal Comune dal titolo Incontri con la Fantastica e questo lo rese stupefatto poiché dopo trentaquattro anni che quella parola gli faceva compagnia la vedeva finalmente a chiare lettere sui cartelloni che annunciavano il suo arrivo.
La seconda era sempre nel manifesto dove vi era scritto le “prenotazioni” sono limitate «a cinquanta» persone poiché un numero maggiore avrebbe fatto diventare conferenze quelle che invece dovevano essere utili come incontri. Tale avvertimento gli faceva ben pensare che il limite era dato anche dal timore che folle incontenibili di persone avessero assaltato lo spazio a quel richiamo dato dalla parola «Fantastica».
La terza ragione che lo rese felice, la più sostanziosa come lui stesso scrisse, risiedette nella possibilità che gli fu data di: «ragionare a lungo e sistematicamente, con il controllo costante della discussione e della sperimentazione, non solo sulla funzione dell’immaginazione e sulle tecniche per stimolarla, ma sul modo di comunicare a tutti quelle tecniche». Quegli incontri infatti divennero e si affermarono come strumento per l’educazione linguistica non solo dei bambini ma anche degli adulti.
Gianni Rodari in quei giorni diede agli educatori e a noi tutti innovative lezioni di grammatica. Quel libretto, come lo chiamerà, sarà sempre utile a chi crede nella necessità che l’immaginazione abbia il suo posto nell’educazione. «Tutti gli usi della parola a tutti». Non perché tutti siano artisti, ma perché nessuno sia schiavo.
Ad essere presente a quelle giornate dedicate alla Fantastica c’è un’altra importante mente, quella di Francesco Tonucci ricercatore al Cnr dal 1966, psico-pedagogista del Cnr conosciuto con lo pseudonimo di Frato, è ideatore del progetto pedagogico e urbanistico “La città dei bambini”.
Come è iniziato il rapporto con Rodari e Malaguzzi?
Con Loris dagli anni 70 ho condiviso con continuità ricerche e amicizia poiché collaboravo con lui negli asili; con Gianni sono state occasioni importanti, di scambio di riflessioni, di lavori ma anche di momenti divertenti quando ci vedevamo. La prima volta che lo conobbi fu proprio a Reggio Emilia per gli incontri sulla fantastica. Mi ricordo che la mattina scriveva il suo elzeviro Benelux per Paese Sera dettandolo per telefono alla redazione, poi preparava la lezione che avrebbe fatto nel pomeriggio al corso che tenne appunto in quei giorni per gli operatori delle scuole comunali, statali, ma se ricordo bene anche private, poiché non si volle escludere nessuno alla formazione. Rodari ci presentava le sue tecniche della fantastica che abbiamo ritrovato poi nella Grammatica della fantasia, le sperimentava lì, con noi adulti. Noi giocavamo con il binomio fantastico, l’insalata di favole, le favole a rovescio, l’errore creativo e altri esempi. Le maestre portavano la mattina seguente nelle loro classi quel che avevano sperimentato e provavano a giocare nello stesso modo con i loro alunni a costruire storie attraverso le idee che Gianni aveva dato. Io riflettevo, appuntavo, disegnavo. Ero un giovane ricercatore ma anche un allievo in quei giorni. Giravo per le scuole e girando ho ascoltato i primi frutti di queste attività delle insegnanti. Due esempi che arrivarono dalla scuola dell’infanzia Diana vengono dalla voce dei bambini La parola “ciao” e il binomio fantastico “Luce” e “scarpe”, io ero lì e portai a Gianni la notizia del successo di quegli esperimenti. Oggi queste storie inventate dai bambini attraverso le sue tecniche vivono nelle pagine del libro di Grammatica, e mi sento orgoglioso di essere stato presente alla loro nascita.
C’è anche un mio disegno che velocemente feci per appuntare immagini che si susseguivano alle tante suggestioni arrivate, Gianni lo scelse, si trova nel capitolo “Le carte di Propp” il falso eroe.
Comunque possiamo proprio dirlo, avere lì Rodari e Malaguzzi insieme, fu un avvenimento ad oggi di importanza storica.
E Malaguzzi come partecipava a quelle giornate e che visione aveva dell’educazione?
Anche se padrone di casa, poiché ci trovavamo nella sua scuola, in quei giorni era allievo come me. Lo eravamo tutti. Insieme a tutti gli altri educatori ascoltavamo e provavamo le tecniche fantastiche. Loris, nel suo lavoro per i nidi, aveva una visione chiara dell’educazione, sapeva dove voleva andare. Ragionavo spesso con lui sulle pratiche attive. Ha avuto un modo di interpretare il servizio scuola di infanzia diversamente da altre città ed altre regioni. Vigeva altrove la linea più comune di offrire una scuola dell’infanzia a tutti bambini da tre a sei anni dedicandosi pian piano col tempo alla qualità educativa, lui invece decise di voler scuole dell’infanzia subito di altissima qualità, il top, e preferibilmente per i bambini definiti “ultimi”. Ha cercato di far in modo che gli altri guardassero quella qualità armandosi anche loro di desiderio per cercare di migliorarsi, per avere più modelli simili di pedagogia, richiedendo quindi più risorse da mettere in campo per ottenere quel progetto di scuola. Forse è questa spinta che ha fatto sì che Reggio avesse le scuole più belle del mondo, con un livello molto alto.
Quale fu l’elemento rivoluzionario che Malaguzzi portò nelle scuole di Reggio Emilia?
La rivoluzione fu negli spazi, nidi belli e creativi, utilizzando vecchie case, palazzine, come la Villetta per esempio, che era un vecchia villa su tre piani, non fermandosi davanti ad ostacoli apparentemente vincolanti tipo le scale, che oggi in molte costruzioni di scuole non ci sono, ma trovando invece lì, in questo elemento, un enorme valore educativo e psicomotorio. I bambini infatti salivano e scendevano le scale con divertimento e scoperta.
Quale altri importanti esempi di cambiamento ha desiderato e realizzato?
Tanti, quello degli angoli. Si rompe lo schema, pur di valore montessoriano, con l’articolazione dell’aula in spazi diversi dove si fanno cose diverse: l’angolo casa, l’angolo libri, l’angolo della pittura, l’angolo della falegnameria… Un altro nuovo elemento che interviene sono i laboratori. Siamo negli anni 70. I laboratori di arte sono una presenza costante a Reggio Emilia; nei laboratori si lavora la creta, la ceramica, c’è il forno della ceramica. E i bambini sono esposti ad un processo scientifico perché il lavoro e la manipolazione della ceramica è molto diverso da quella del pongo e dell’uso della plastilina di cui sono sempre stato “nemico” scrivendolo anche nei miei libri. Il processo della ceramica cambia in colore e pittura e i bambini imparano a saper prevedere il cambiamento. Mentre l’uso della creta l’ho trovato dopo qualche anno anche nei nidi.
C’era una parte artistica educativa?
Certamente, un’altra grande invenzione di Loris è stata quella degli atelieristi, educatori che non avevano fatto la scuola magistrale ma bensì la scuola d’arte. Queste figure educanti venivano chiamate tramite concorso approvato dalle scuole dell’infanzia di Reggio Emilia. Erano artisti, persone dedicate all’arte con competenze. Erano culturalmente diverse e si vestivano in modo diverso, più stravagante. Poteva essere anche un rischio questa loro presenza, ma Loris era bravo a saper far collaborare tutti, anche attraverso le continue proposte formative rivolte a chiunque degli operatori della scuola: dalle insegnanti agli atelieristi, al personale di pulizie e della cucina. Perché tutte le figure, anche apparentemente marginali, hanno un rapporto quotidiano educativo importante coi bambini.
L’altra novità è che a Reggio Emilia c’erano le caprette. C’era sempre la presenza di un animale, difesa come presenza significativa.
C’è stata un’altra occasione di lavoro nelle scuole con Rodari?
Sì, dopo quella di Reggio Emilia l’ho invitato a Livorno nella scuola di Corea di Livorno. Ero membro del Comitato scientifico della scuola. Lo Stato ritenne possibile lì una scuola sperimentale e io facevo parte del consiglio. Occupandomi prevalentemente della formazione degli operatori; tutti gli anni organizzavo due corsi di formazione uno breve e uno più lungo. Era circa la metà degli anni Settanta. Gianni portò la sua esperienza di invenzione ai bambini e agli altri educatori. Dividevamo le giornate di lavoro e il lavoro in orari e gruppi, con l’osservazione finale della giornata. Partecipò anche Vea Vecchi che costruì le teorie pedagogiche dell’esperienza educativa reggiana, e altri atelieristi di Reggio, soprattutto perché era un corso di educazione creativa.
Loris anche venne a Livorno.
Erano anni importanti durante i quali si faceva ricerca, si poteva rivoluzionare il passato. Come rispondevano i partiti?
Una cosa divertente che lasciò la sinistra di stucco fu la creazione della Rivista Zerosei edita da Fratelli Fabbri che uscì per la prima volta a settembre del 1976, in un periodo di grande attenzione e grande fermento per lo sviluppo dei servizi educativi per l’infanzia e acquistò rapidamente consensi tra gli educatori. A dirigere la rivista venne chiamato Malaguzzi. Io feci parte del comitato di coordinamento insieme ad un gruppo di ricercatori e pedagogisti, condirettore della rivista era Ferruccio Cremaschi (oggi direttore di Zeroseiup). Fabbri dal ’71 era già per maggioranza acquistata degli Agnelli, e Loris era un uomo di sinistra, ma farà un atto di grande creatività. Faceva già parte della direzione nella rivista Infanzia edita da La Nuova Italia che possiamo dire vicina al partito comunista e diretta da Piero Bertolini di Bologna. Malaguzzi senza avvisare né dimettersi dalla rivista Infanzia, fece uscire Zerosei. Sono anni quelli in cui la politica è in netta competizione, c’è violenza, ma Loris segue un’operazione dal grande valore politico, rischioso, ma che va oltre i partiti. La sua idea era molto chiara; se si voleva dare un contributo alla crescita di questa dimensione della scuola dell’infanzia, che lui giustamente considerava decisiva, bisognava farlo uscendo dalle nostre “parrocchie” e riviste, che erano autoreferenziali, e parlare con gli altri. Effettivamente Zerosei entrò nelle scuole, pubbliche e private e diventò una rivista di grande ascolto. Divenne anche la sede delle mie prime vignette di Frato. Ad ogni uscita della rivista c’era una mia vignetta che poi nell’81 la Fabbri pubblicò nel libro che firmo Con gli occhi del bambino.
Ci sono altri aspetti politici vissuti insieme?
Sì, negli anni Ottanta si è aperto un dibattito sull’obbligatorietà dell’ultimo anno della scuola dell’infanzia fino ai cinque anni e noi ci siamo schierati contro perché era un modo per travisare completamente il significato di questo anno che avrebbe fatalmente terminato per diventare una sorta di primina e avrebbe impoverito l’esperienza della scuola dell’infanzia.
Vi siete trovati sempre d’accordo?
Su due punti no, ci siamo divisi pur rimanendo sempre amici.
Un discorso è quello del refettorio, che anche in scuole eccellenti come queste di Reggio rimane un posto complicato, con troppe persone insieme che fanno chiasso e questo produce un declassamento del cibo; anche se la qualità del pasto è ottima c’è troppa distrazione che non dà ai bambini la tranquillità di mangiare con calma. Alla scuola di Corea di Livorno decido di trasformare lo spazio del refettorio in uno spazio di arte e di mangiare, con i dovuti accorgimenti del caso, nelle classi. Questo cambia totalmente lo spirito, il clima, si superano i problemi. L’altro discorso in cui non ci siamo trovati d’accordo è sull’omogeneità di età. Ho sempre sostenuto le classi miste che ho voluto infatti a Livorno con bambini di età miste da tre, quattro e cinque anni e che non so per quale strada è ciò che per lo più si è adottato nelle scuole di Roma. Quindi c’era un’attività dinamica e le classi erano sempre vive e rinnovate ogni anno, mentre Reggio ha mantenuto fino ad oggi l’idea delle tre età, tanto che c’erano poi dei programmi pensati proprio per ogni anno di riferimento. Ho sempre pensato fosse più adatta la classe mista per insegnargli a vivere insieme con le loro differenze, tra chi aveva tre anni e chi quasi sei.
Il nido-scuola Diana quando fu nominato come scuola più bella del mondo?
Fu inaugurato il 7 marzo 1970 nel cuore della città, all’interno del verde del parco pubblico, nello stesso punto dove prima c’era una palazzina liberty. Si chiamava già Diana e il nome rimase. Poco più di vent’anni dopo, era il 1991, divenne famosa in tutto il mondo. Fu il magazine statunitense Newsweek che, dopo una ampia e profondo ricerca sulle scuole d’infanzia di tutta la Terra, elesse il Diana come «l’asilo più bello del mondo», un tributo agli sforzi, alle idee, di Loris. È il Diana infatti la struttura che più di qualsiasi altra ha fatto diventare il “modello reggiano” celebre in tutto il globo e in particolare negli Stati Uniti.
In Italia come è stata vissuta questa esperienza di scuole così diversa dalle altre?
Vennero addirittura “denunciate” come le scuole dei bambini comunisti. Il paradosso che dovrebbe essere sottolineato è quello che, nel momento in cui lo Stato italiano aprì l’esperienza delle scuole materne statali, quella di Reggio è già un’esperienza affermata, ma nessuno si preoccupa di studiarla e lo Stato italiano si dà una scuola dal nome “materna”; già da questo si intuisce essere vecchiotta, infatti non godrà del grande valore delle scuole di Reggio. Il Ministero non ha pensato necessario e doveroso studiare le sue migliori esperienze comunali e riproporle prima ancora di definire i programmi delle sue scuole materne.
L’Italia mantiene, grazie a Reggio Emilia, Bologna, Modena, Roma con il nido Malaguzzi di Montecucco e la grande esperienza di Pistoia, le migliori scuole dell’infanzia del mondo, ma sono tutte scuole comunali.
Cosa significa quella frase, concetto importante di Malaguzzi, che afferma che per il bambino «il cento c’è» ?
Che il bambino ha cento linguaggi e gliene rubano novantanove. Per Loris significava questo, è questo. Riconoscere che il bambino ha tanti modi di esprimersi e nell’educazione questi modi di esprimersi non vengono riconosciuti, non vengono coltivati, anzi vengono umiliati, qui c’è tutto un discorso importante che si deve approfondire sul come poter fare per mantenerli.
«Gli dicono: – che il gioco e il lavoro – la realtà e la fantasia – la scienza e l’immaginazione – il cielo e la terra – la ragione e il sogno – sono cose – che non stanno insieme. – Gli dicono insomma – che il cento non c’è – . Il bambino dice: – invece il cento c’è» (da I cento linguaggi dei bambini, Junior 1995)