Quell’estate di quarant’anni fa si può ben considerare, come scrive anche l’Espresso in edicola, la più tragica della storia della Repubblica. Il 23 giugno, continua il settimanale, viene ucciso a Roma dai neofascisti dei Nar il giudice Mario Amato, il 27 viene abbattuto sui cieli di Ustica il DC9 dell’Itavia con 81 persone a bordo, il 2 agosto esplode una bomba alla Stazione di Bologna: 85 i morti.
Ma al settimanale sfugge che quella terribile estate aveva già preso il via, proprio agli inizi di giugno, in Calabria, sull’asse Rosarno (Reggio Calabria)-Cetraro (Cosenza) l’11 e il 21 giugno.
L’11 era stato assassinato a Rosarno dalla ’ndrangheta, Peppe Valarioti, giovane e brillante professore di origine contadina, rigoroso e travolgente segretario della sez. Pci di quella città, a conclusione di una cena di festeggiamento per la vittoria elettorale alle provinciali con la rielezione di Peppino Lavorato, mitico dirigente comunista e alle regionali di Fausto Bubba, anima della coop agrumicola rosarnese Rinascita, dopo una campagna elettorale svoltasi in un clima infuocato di scontro frontale sul tema della lotta alla ’ndrangheta, di cui Valarioti e Lavorato erano stati le punte di diamante.
E a Rosarno la lotta alla ’ndrangheta non era materia di dibattito sociologico o letterario, ma battaglia frontale quotidiana fatta di sguardi, schiena dritta, atti quotidiani concreti, risposte decise a minacce, intimidazioni, aggressioni.
Fu un colpo durissimo al Pci di Berlinguer, la forza politica che con più coerenza e decisione si batteva contro le mafie e si sforzava di tenere insieme etica e politica.
Ma l’attacco della ’ndrangheta in mutazione, all’interno di quella terribile estate degli anni 80, in Calabria non si fermò lì.
Era ancora vivo e bruciante il dolore e l’eco dell’agguato di Rosarno quando il successivo 21 giugno a Cetraro, importante centro del tirreno cosentino, veniva assassinato da un commando in moto Giannino Losardo.
Anch’egli figura emblematica, di significativo rilevo del Partito comunista italiano di quella zona.
Un uomo di grande spessore etico e culturale che ho avuto il piacere e la fortuna di conoscere personalmente, segretario della procura della Repubblica di Paola, assessore ai lavori pubblici prima e all’istruzione poi, al comune di Cetraro. Assassinato a conclusione di un infuocato consiglio comunale, nel corso del quale si dimise da assessore denunciando la penetrazione della criminalità nell’istituzione comunale che determinerà quella sera stessa, avvalendosi di una mini scissione nel gruppo del Psi, la caduta della giunta di Sinistra. Da tempo a Cetraro era in corso l’attacco al territorio portato avanti dal clan di Franco Muto, noto anche come il re del pesce, che Losardo fronteggiava con autorevolezza e vigore.
Quei drammatici anni 80 segnano per il nostro Paese, un passaggio di fase di cui le mutazioni riguardanti la natura e le pratiche della criminalità in Calabria, sono parte non secondaria.
Questo dato è colto e ben tratteggiato nel libro di Pino Arlacchi La mafia imprenditrice (Il Mulino, 1983).
Una svolta che appare ancor più marcata a Cosenza per la sua storia e, segnatamente, nel Tirreno cosentino.
Una città ed un’area fino agli inizi anni 70 non segnate da alcuna particolare virulenza della malavita.
Una realtà, il Tirreno cosentino, che viveva tutte le contraddizioni del tempo e registrava, in fatto di organizzazione e struttura della criminalità, lo stesso trend di Cosenza, con una criminalità di natura e dimensioni, per così dire, tradizionali, catapultata in quei turbolenti anni a misurarsi con un doppio passaggio.
Il primo dalla dimensione gangsteristica delle bande criminali a quella “mafiosa”. Il secondo da quest’ultima ad impresa.
Questo cammino, sul versante criminale, in realtà, si era già avviato alla fine degli anni 60.
Vasta è la letteratura in materia che parte, per restare agli studi ed alle e analisi avviate in quel tempo dal dipartimento di Sociologia della giovane Università calabrese, proprio dal lavoro fissato nel citato testo di Pino Arlacchi, “la mafia imprenditrice”.
Un libro, come ben sintetizzato nella sua quarta di copertina, che segna «una rottura negli schemi interpretativi della società mafiosa di Calabria e Sicilia e ne documenta la trasformazione decisiva avvenuta in quel periodo: da mediatore sociale legato a valori arcaici e tradizionali ad aggressivo accumulatore di capitale. Il campo di azione delle forze criminali oggi – anni 80 – si estende dalla droga alle armi, alle risorse energetiche, e comprende i capitali derivati dalla corruzione, dalla grande evasione fiscale e dal saccheggio delle casse statali. Le organizzazioni criminali trovano nel sistema finanziario globale un habitat favorevole, un rifugio inespugnabile, contro il quale l’attività repressiva è costretta a interrompersi. Come in Calabria, in Sicilia, le regioni da cui parte l’allucinante discesa nel ventre dell’economia globalizzata».
Ed appunto è del 26 ottobre 69 il summit ndranghetista di Montalto d’Aspromonte che segna il passaggio della ndrangheta “dell’ominità” (Ilario Ammendolia, La Ndrangheta come alibi) a quella dei sequestri e della droga, a quella della commistione con settori delle istituzioni e dei servizi, a quella del sostegno ai golpisti della destra nera (il tentativo Borghese, la rivolta di Reggio Calabria), alla sua trasformazione in impresa e alla penetrazione nelle istituzioni attraverso la costruzione e crescita di una vera e propria borghesia mafiosa.
È lo stesso anno in cui nel nostro Paese parte la strategia della tensione.
La strage di piazza Fontana a Milano del 12 dicembre, che inaugura, come risposta ai grandi movimenti di lotta del 1968/69, con la bomba alla banca dell’Agricoltura, la strategia della tensione, la stagione degli “anni di piombo” e si protrae fino agli inizi anni 80.
Gli anni a cavallo tra la fine del 1970 e gli inizi del 1980 segnano, a colpi di kalashnikov e mitraglietta, questo passaggio di fase e, in Calabria segnano l’estendersi di questa mutazione della criminalità organizzata in tutte le province della Regione.
Anche in quelle che, come Cosenza, non ne erano state fino ad allora pervase.
Ed è in questo clima, che matura il mutamento di percorso e degli assetti di sistema generale e criminale insieme che esplode, nella specificità dei diversi contesti, tra la fine degli anni 70 ed i primi anni 80 e che in Calabria culmina negli gli assassini di Peppe Valarioti e , a distanza di 10 giorni, di Giannino Losardo.
In due contesti socio economici diversi, ma tenuti insieme da un medesimo filo.
Losardo, anche dal suo osservatorio di segretario della procura di Paola riusciva a vedere con più chiarezza di altri l’avvio di questo percorso e provò da comunista e da integerrimo rappresentante delle istituzioni, ad arginarlo.
Non avevano, invece, visto e capito o, forse, come pensavano allora in molti, voluto vedere e capire, importanti articolazioni delle istituzioni, gruppi importanti dei partiti, anche di sinistra, il Psi di allora, lo stesso governo e le sue articolazioni, settori chiave della magistratura.
Forse perché consapevoli della china che avevano già preso i grandi mutamenti strutturali dell’economia e della finanza internazionali e convinti che non ci fossero alternative.
Non è un caso che sia a Rosarno che a Cetraro lo scontro politico è con parte dei gruppi dirigenti o con alcune personalità di rilievo del partito socialista di allora.
La forza che tentava con decisione di opporsi a questo processo era allora il Pci di Berlinguer.
E Giannino e Peppe erano, in Calabria, due delle migliori espressioni di quel partito.
Giannino operava in una zona, il Tirreno cosentino, di grande tradizione politica democristiana che aveva visto dagli inizi anni 70 un grande balzo in avanti del Pci.
A Cetraro e Praia c’erano due significativi insediamenti tessili (Faini e R2, quest’ultima poi Lini e Lane, poi Lanerossi, ed ancora dopo Marlane in crisi sistematica).
Entrambe le esperienze, sia pur nella loro diversità di origine e gestione, classica espressione dell’imprenditoria che incassa i soldi dell’intervento straordinario e abbandona la Calabria lasciandosi alle spalle centinaia di cassaintegrati e il collasso dei settori collegati che già mostravano segni di crisi.
Gli echi delle grandi lotte operaie del Nord e la speranza in un cambiamento che avrebbe potuto produrre la forte avanzata del Pci era tanta.
A Paola, dove abitavo all’epoca e ricoprivo il ruolo di consigliere comunale (1973/74) e responsabile di zona del Pci, fino alla grande avanzata del 1976 di quel partito, avevamo aggregato una grande forza giovanile composita, proveniente da diversi strati sociali, nella quale si ritrovava buona parte di quei giovani che a Reggio erano scesi sulle barricate con i “boia chi molla” e ragazzi che venendo alcuni da famiglie della delinquenza tradizionale, o ad essa vicine, vedevano in quell’impegno un percorso di riscatto. Per alcuni divenuto concreto. Uno in particolare, Salvatore Serpa, merita di essere ricordato. Di provenienza da una famiglia dell’omonimo clan paolano, da giovanissimo mostrava interesse per la politica e la volontà di staccarsi dalle tradizioni del clan di appartenenza.
Ed infatti Salvatore (Tuturu) dopo una esperienza nella nascente “Servire il Popolo”, scelse di aderire al Pci e poi alla fine degli anni 70, anche per staccarsi più decisamente dal contesto di origine e dalla guerra tra clan scoppiata a Paola e sul Tirreno in quell’epoca, decise di andare a continuare la sua esperienza politica nella Fillea Cgil di Cosenza. Ma non fu sufficiente. Il 12 agosto del 1981, nel corso di quella terribile guerra tra bande, fu assassinato a casa sua, a Spezzano Sila dove si era trasferito. Vittima di un omicidio trasversale della guerra in corso tra il clan paolano della sua famiglia di origine ed altri clan in lotta per il predominio in quel quadro di cambiamento di sistema sopra richiamato. Un episodio trascurato e derubricato ad “omicidio trasversale” nelle logiche delle guerre tra bande e stralciato, a torto, dallo scenario generale , anche politico.
Paola in quella fase era un centro vivacissimo, con una forte sezione del Pci, con il suo nucleo storico di ferrovieri e una massiccia presenza di giovani ed intellettuali, che contrastava con successo da un lato l’egemonia democristiana, da un altro quella di un Psi ben strutturato e radicato, rappresentato da forti personalità e da un altro ancora una vivace presenza di “Servire il Popolo”, formazione extraparlamentare cresciuta intorno alla carismatica figura di Enzo Lo Giudice, brillante avvocato di successo, uno dei tre fondatori della stessa con Meldolesi e Brandirali.
L’ entusiasmo era grande e grande fu il balzo in avanti del Pci.
Ma altrettanto grande fu la delusione per il mancato arrivo dei risultati sperati in termini lavoro e mobilità sociale. E molti di quei ragazzi ritornarono sulle vecchie vie.
La temperie di quegli anni, fine anni 60 inizi anni 80, definiti ” anni di piombo” , fin troppo nota per doverci ritornare in questa sede, è anche il contesto in cui mutano le strategie, le alleanze, le modalità operative della criminalità locale ed il contesto nel quale nel Tirreno cosentino i fenomeni criminali vanno sempre più orientandosi verso i consolidati modelli della ndrangheta reggina e della camorra napoletana.
Sono gli anni dell’intreccio ndrangheta massoneria (lo spiega bene oltre il pregevole lavoro di Pino Arlacchi, la successiva inchiesta della commissione parlamentare antimafia presieduta da Francesco Forgione) dell’assalto alle coste, dei traffici illeciti, delle logge massoniche deviate, della concentrazione degli apparati di sicurezza dello Stato e della magistratura prevalentemente sul terrorismo, mentre si trascurava analizzare e perseguire adeguatamente la crescita e la mutazione delle mafie e, sul fronte politico, di leggere a fondo le mutazioni della stessa natura del poter economico e del capitalismo .
In questo contesto e clima, il Tirreno cosentino e la stessa Cosenza diventano, a cavallo tra gli anni 70 e gli anni 80, una sorta di Far West.
Un interessante convegno promosso a Cosenza nel 1982, da Cgil Cisl Uil, Università della Calabria, Magistratura democratica e Sindacato unitario di Polizia, vede la partecipazione di associazioni varie, avvocati, imprenditori e di politici del calibro di Francesco Martorelli, Pierino Rende, Giacomo Mancini e Stefano Rodotà, mette in evidenza, con una puntuale relazione di Pino Arlacchi, questo percorso di cambiamento della criminalità cosentina, all’epoca, non ancora mafia ma gangsterismo e le differenti letture che se ne danno (Gangster a Cosenza. 10 Gennaio 1982 effesette CS)
Lo stesso processo di mutazione era in corso sul Tirreno cosentino e l’omicidio Losardo fu il messaggio che venne mandato a chi aveva scelto di contrastarlo. Il Pci dell’epoca.
Ripercorrendo quelle vicende, a quarant’anni di distanza, appare chiaro che nello scenario terribile di quegli anni si avviava il cambiamento stesso della natura del capitalismo e la costruzione di un sistema di potere che non si basa più «su classi produttive, ma su attività predatorie che agiscono anche grazie alla complicità fornite loro da parte dei “ceti medi”…… Nasce cioè la forma moderna del capitalismo della globalizzazione che non è quella della competizione benigna sperata dai liberali (di destra e di sinistra) né quella della lotta di classe della lotta delle moltitudini contro l’Impero del Capitale, o dell’utopia dell’inclusione delle classi medie… ma un sistema nel quale i ricchi hanno preso il controllo di un sistema costruito per le classi medie attraverso una doppia metamorfosi in cui «lo Stato industriale viene sostituito dallo Stato predatorio, ed una coalizione di instancabili oppositori ad ogni idea di – interesse pubblico -si assume lo scopo di controllare la struttura dello stato per dare potere ad un’alta plutocrazia provvista solo di obiettivi immorali e di rapina». (L.Randall Wray, 2008 in Bruno Amoroso, “I frutti amari della Globalizzazione” 21-26 agosto 2008). I frutti amari di quella trasformazione sono oggi tutti e ben visibili sotto i nostri occhi.