Gli avvenimenti del luglio 1960 segnarono, sessant’anni fa, un indubbio momento di svolta per l’Italia. Presero avvio a seguito della costituzione del governo di Fernando Tambroni con l’appoggio determinate del Movimento sociale italiano, il partito neofascista. Un monocolore democristiano che ottenne il 9 aprile di quell’anno 300 voti favorevoli alla Camera a fronte di 293 contrari. L’Msi poteva allora contare su 24 seggi, e risultò decisivo. L’iter parlamentare si concluse al Senato il 29 aprile con 128 voti favorevoli e 110 contrari. Solo pochi giorni prima, il 25 aprile, nell’anniversario della Liberazione, gli stessi senatori del Msi si erano rifiutati di partecipare alla commemorazione ufficiale.
Non era la prima volta che i missini facevano confluire i propri voti a sostegno di monocolori democristiani o ne avevano favorito l’insediamento. Era già accaduto con Giuseppe Pella nel 1953, quando si astennero al Senato, e con Adone Zoli nel 1957 quando lo sostennero esplicitamente. Per la cronaca, nell’agosto del 1957 Adone Zoli contraccambiò l’appoggio ricevuto consentendo il trasferimento dei resti di Benito Mussolini a Predappio, suo luogo di nascita. Ma nel 1960 fu la prima volta che un governo arrivava a reggersi solo grazie ai voti del partito neofascista.
Il passato di Fernando Tambroni
Fernando Tambroni, iscrittosi nel 1926 al Partito nazionale fascista, nonché camicia nera nella Milizia volontaria con il grado di centurione, era stato ministro dell’Interno dal 1955 al 1959. Non sono molte le fonti per una sua biografia, ma sappiamo, quasi un presagio, che già nell’aprile 1955 era stato proprio lui a trattare col Msi i voti per fare eleggere Giovanni Gronchi Presidente della Repubblica e che Gronchi gliene ne fu sempre riconoscente intervenendo personalmente affinché diventasse ministro. Tambroni in un suo libro, pubblicato proprio nel 1960, e dedicato in gran parte al «problema del comunismo», manifestò concezioni da “Stato forte” asserendo la necessità dell’intransigenza «verso chiunque volesse violare le leggi», prendendosela in particolare con «gli strati più umili» colpevoli di aver poco «senso dello Stato». Diversi furono su questa linea anche i suoi discorsi in Parlamento, dove, tra l’altro, intervenne compiaciuto nel 1958 per commentare l’arresto di Carla Capponi (medaglia d’oro della Resistenza), fermata a Roma per aver partecipato a una manifestazione non autorizzata.
La convocazione del congresso missino a Genova
Con l’intento di incassare i frutti politici dell’appoggio dato al monocolore democristiano, l’Msi decise il 14 maggio di tenere dal 2 al 4 luglio il suo sesto congresso nazionale a Genova, città medaglia d’oro della Resistenza. Circolò anche la notizia, apparsa sul «Secolo d’Italia» (il quotidiano missino), che il congresso sarebbe stato presieduto dall’ex prefetto repubblichino Carlo Emanuele Basile, collaboratore dei nazisti proprio a Genova nella feroce repressione del 1943-1945, con la fucilazione di numerosi partigiani e la deportazione di quasi 1.500 operai in Germania. Trapelò anche la voce che sarebbe stato presente Junio Valerio Borghese, il famoso comandante della X Mas. Oltretutto la sala prescelta per il congresso, il Teatro Margherita, si trovava a meno di 50 metri dal sacrario dei caduti partigiani. Fu l’inizio della rivolta.
Sale la tensione
Vi erano già state alcune avvisaglie, fuori Genova, del crescere della tensione. A Livorno, dal 18 al 21 aprile, si ebbero pesanti e ripetuti scontri, solo in apparenza originati da futili motivi, tra giovani e folti gruppi di paracadutisti della locale caserma; a Bologna, il 21 maggio, un comizio di Giancarlo Pajetta, uno dei massimi dirigenti del Pci, venne interrotto da violente cariche della polizia, mentre a Milano, il 7 giugno, la sede del Partito radicale venne devastata da una squadraccia fascista capitanata da un noto esponente missino.
La rivolta popolare e il debutto delle “magliette a striscie”
Ma saranno le date del 25, del 28 e del 30 giugno a incanalare la protesta, quando la Camera del lavoro di Genova proclamò lo sciopero dei portuali il 25, e poi, il 30, di tutte le categorie. Tra le due date venne organizzato un comizio di Sandro Pertini, all’epoca dirigente socialista. Il corteo del 25, che sfilerà fino al sacrario dei partigiani, venne caricato in fase di scioglimento originando scontri che dureranno fino a sera. Comparvero qui per la prima volta le cosiddette “magliette a strisce”, usate dai lavoratori dei porti in molti Paesi che divennero un simbolo di lotta della gioventù antifascista. Il comizio di Sandro Pertini, il 28, con non meno di trentamila partecipanti nella grande piazza della Vittoria, passerà alla storia come “u brighettu”, il fiammifero, a significare che accese la fiamma della rivolta popolare. Sosterrà la legittimità del popolo genovese a negare al Msi il diritto di svolgere il suo congresso, un movimento che «è una chiara esaltazione del fascismo», sottolineando l’errore di non aver applicato la Costituzione permettendone l’attività, concludendo con un appello, «costi quel che costi», a impedire che si recasse oltraggio alla Resistenza. Il 30 giugno, al termine del comizio sindacale, la polizia caricò gruppi di manifestanti trasformando il centro della città in un’area di scontri. I celerini furono però costretti alla fuga dalla reazione popolare, alcune jeep vennero incendiate e un capitano della celere venne addirittura gettato nella fontana di piazza De Ferrari. Centonove agenti dovettero ricorrere a cure ospedaliere. Nella notte tra il 1° e il 2 luglio, a poche ore da un secondo sciopero generale proclamato dalla Camera del lavoro, l’Msi, in un comunicato, annunciò la decisione di rinunciare al congresso. Una vittoria dell’antifascismo.
A Reggio Emilia e in Sicilia la polizia spara. E uccide
La protesta comunque non si esaurì e si estese in tutta Italia. Il 5 luglio, a Licata, in Sicilia, la polizia sparò contro una folla di manifestanti uccidendo un giovane. Il giorno successivo a Roma un corteo con migliaia di persone, con in testa decine di parlamentari della sinistra e comandanti della Resistenza, venne caricato dalla polizia e da uno squadrone a cavallo di carabinieri, travolgendo deputati, senatori, anziani, donne, giovani. Trecento i fermati, 19 gli arresti. Il 7 luglio a Reggio Emilia, dove era stato proclamato lo sciopero generale, la polizia sparò a raffica contro i manifestanti con mitra, moschetti e pistole. Centinaia di pallottole che uccisero cinque operai e ne ferirono altri sedici. Mai in Italia le forze di polizia avevano tirato tanti colpi ad altezza d’uomo. Ma non finì qui. L’8 luglio a Palermo si sparò ancora. Furono uccisi due dimostranti e con una pistolettata una donna affacciata alla finestra. Nell’occasione ben 350 persone furono fermate. A Catania, lo stesso giorno, ci fu un altro morto abbattuto da una raffica di mitra.
Un pericolo per la democrazia
Tambroni consegnò al Capo dello Stato un dossier in cui si denunciava un piano insurrezionale comunista i cui fili portavano a Mosca, un’ossessione già più volte manifestata. Ma alla fine, il 19 luglio, fu costretto a dimettersi, isolato nel Paese e nel suo stesso partito. Si è molto discusso sul pericolo corso in quei mesi dalla nostra democrazia. La dura repressione poliziesca per sconfiggere nelle piazze le sinistre per poi puntare alla costituzione di uno “Stato forte” di tipo gollista è stata più che un’ipotesi plausibile. Tambroni costituì una specie di polizia privata (addirittura se ne vantò) con compiti di sorveglianza sui comportamenti privati di avversari politici e avviò schedature di massa di possibili nemici e anche di molti amici, incutendo timori negli stessi vertici democristiani che paventarono sue prove di forza. L’uso privatistico dell’Ufficio Affari Riservati (il servizio segreto civile), ma anche gli stretti rapporti con le associazioni d’Arma delle forze armate, che si misero pubblicamente a sua disposizione, suscitarono paura e allarme. Lo stesso Gronchi anni dopo confidò di aver avuto il dubbio di qualche mira golpista da parte di Tambroni. Aldo Moro, a sua volta, nel memoriale scritto durante la prigionia cui fu costretto dalle Brigate rosse parlò di fibrillazioni che riassunse come «il fatto più grave e più minaccioso per le istituzioni intervenuto in quel l’epoca» che lo costrinsero a «esigere le dimissioni di Tambroni». L’antifascismo vecchio e nuovo, i partigiani e i giovani con le “magliette a strisce”, lo fermarono. Una pagina fondamentale a difesa della democrazia.