La coraggiosa ricerca di Franz Boas, pioniere dell’antropologia. Sfidò l’establishment Usa che sponsorizzava conferenze sull’eugenetica e mostre sugli «effetti negativi dell’incrocio razziale». Charles King la racconta nel suo nuovo libro

«Questo libro tratta delle donne e degli uomini che si sono trovati in prima linea nella più grande battaglia morale dei nostri tempi: la lotta per dimostrare che, nonostante le differenze del colore della pelle, di genere, di abilità e di tradizioni, l’umanità è una sola» scrive Charles King nel nuovo libro La riscoperta dell’umanità da poco pubblicato in Italia da Einaudi (tradotto da D. Ferrari e S. Malfatti).

L’ultimo lavoro dello scrittore e docente statunitense (che mutua il titolo da uno scritto di Zora Neale Hurston, protagonista di ricerche etnografiche nei Caraibi) rende omaggio all’uomo e allo studioso Franz Boas (1858-1942), pioniere della moderna antropologia. E studioso di grande statura civile.

Prima di avere un posto stabile alla Columbia University fu curatore scientifico del Museo americano di Storia naturale, che in quanto museo era una istituzione dell’establishment e ospitava conferenze sull’eugenetica e mostre sugli «effetti negativi dell’incrocio razziale». Fu in quel frangente che Boas ne comprese tutta la pericolosità. Negli anni Trenta pubblicamente prese coraggiosamente posizione contro ciò che stava accadendo in Germania dalla quale era partito giovanissimo per studiare e tentare la strada della ricerca trasferendosi in America. Quando denunciò le tesi naziste aveva già 70 anni e, dopo tanti anni di insegnamento, stava per andare in pensione. Ma non si mise le pantofole. Quel pronunciamento che lo esponeva anche a rischi personali era coerente con tutto ciò che aveva sempre trasmesso ai suoi studenti, stimolandoli a pensare con la propria testa e a smascherare la pseudo scienza che era alla base delle leggi restrittive sull’immigrazione negli Stati Uniti.

Nato in una famiglia borghese di origini ebraiche, Boas era inorridito nel vedere che i nazisti si erano ispirati proprio al lavoro pionieristico degli americani nell’eugenetica e più in generale al bigottismo statunitense. Lui che da sempre usava la parola “razza” tra virgolette, utilizzate come guanti chirurgici, vedeva in questa categoria una «finzione pericolosa». 

Da La riscoperta dell’umanità di King emerge uno sfaccettato e appassionato ritratto di Boas, fin dai suoi primi viaggi per conoscere la comunità Inuit. Da ricercatore sul campo decise di fare rotta verso l’Artico proprio perché, diversamente dall’Africa (meta soprattutto di soldati e mercanti), era un luogo di esplorazione nel suo significato più nobile. Ma questo libro non è la biografia di un geniale e solitario antesignano. Piuttosto è una biografia collettiva che abbraccia un intero gruppo di antropologi allievi di Boas, che seguirono e svilupparono il suo impegno. Avremo modo di riparlarne più avanti. Intanto riannodiamo i primi fili della storia: nelle prime pagine del libro di Charles King incontriamo Boas giovanissimo, disposto a fare lavoretti qualunque pur di poter fare ricerca sul campo. Poco dopo diventa redattore di Science, quando era una rivista che ancora faticava ad affermarsi, scrivendo articoli intraprendenti che sfidavano gli assunti accademici. Lo seguiamo nell’avventurosa impresa che lo portò sull’isola di Baffin ma anche fra gli indiani Bella Coola nella provincia canadese della Columbia britannica dove rimase affascinato dalla loro lingua e dalle danze che mettevano in scena con raffinate maschere di legno intagliate.

All’epoca, in quello scorcio di Ottocento, la parola antropologia – che esisteva fin dai tempi di Aristotele – cominciava ad assumere un senso pieno, come studio dell’essere umano, cercando di far luce su come si era sviluppato Homo sapiens. «Il trasferimento di Boas negli Stati Uniti coincise con l’epoca in cui si affermò la figura dell’antropologo, un termine che si cominciava ad utilizzare sempre più spesso per indicare chi viaggiava, raccoglieva artefatti, studiava lingue straniere e andava in cerca di ossa», scrive King. Proprio come Boas aveva fatto sull’isola di Baffin e sulla costa sud occidentale degli Usa. «Dandosi quel nome di antropologo si aveva la sensazione di fare un lavoro pionieristico. L’antropologo trovava di fronte a sé regni inesplorati, poteva attraversare a ritroso il tempo e osservare le origini dell’umanità». 

E Boas lo faceva con una mente laica e scevra da pregiudizi. Con un metodo che fece scuola e, soprattutto, lo portò a scrivere che l’edificio della gerarchia razziale era una fandonia. Le differenze tra diversi tipi sono, nel complesso, piccole rispetto all’arco di variazione all’interno di ciascun tipo, annotava Franz Boas. Non solo non c’era alcuna linea netta fra gruppi apparentemente diversi, «ma – scrive King – quando si provava a definire la razza, e ancor più a quantificarla con pinze e metri a nastro, in mano non restava altro che una manciata di polvere». 

Con il suo libro L’uomo primitivo (1911) Boas si dedicò a smantellare l’idea di una gerarchia fra razze e, in ultima istanza, della razza in sé. Ma a ben vedere c’era anche altro: già allora con quel testo si proponeva di parlare della mente delle popolazioni primitive (non a caso il titolo inglese del libro era: The mind of primitive man). Una nascita umana uguale per tutti? Ci sarebbe voluto un sessantennio per arrivare a questo con la moderna psichiatria. Ma resta straordinario il suo lavoro e il modo con cui ha cercato, personalmente e nel suo gruppo di antropologi ribelli, di sradicare le nozioni contrapposte di “noi” e “loro” e la paura dell’incontro con l’altro, lo sconosciuto. Resta il fatto che con coraggio, passione umana e civile, in un momento così buio della storia come quello segnato dal nazifascismo, insieme ad altri, si sia dedicato totalmente ad argomentare scientificamente che, nonostante il colore della pelle o la provenienza culturale di ciascuno, l’umanità è una sola. Boas e i suoi osarono affermare questo pensiero in un contesto, come quello americano, dove i bianchi al potere teorizzavano la superiorità intrinseca della civiltà occidentale. (Ancora oggi Trump e i suprematisti bianchi vorrebbero riportarci a quell’idea nazista). Boas sosteneva invece il pluralismo, il valore dell’empatia e della ricchezza culturale che nasce dall’incontro con l’altro. Invitando i suoi studenti a analizzare le proprie reazioni di “disgusto”, di “choc” per prendere consapevolezza dei propri pregiudizi più profondi. Fra i suoi allievi c’erano Ruth Benedict ed Ella Cara Deloria, ma c’era anche Margaret Mead poi compagna di Gregory Bateson. A lei Charles King dedica ampio spazio nel volume raccontandone la vicenda intellettuale fin da quando, a soli 23 anni, viaggiava da sola, avendo da poco terminato la tesi di dottorato con Papà Franz (così gli studenti chiamavano Franz Boas) che l’aveva incoraggiata a recarsi in luoghi dove poter fare un lavoro originale e lasciare il segno come antropologa. «Con una buona organizzazione e un po’ di fortuna – le scriveva – la tua ricerca potrebbe diventare il primo tentativo serio di addentrarsi nella mentalità dei nostri antenati». «Se ci riuscirai sarà l’inizio di una nuova metodologia di ricerca sulle tribù indigene», aggiungeva. Così Margaret Mead andò alle Samoa per cercare di capire perché l’adolescenza, secondo un pregiudizio consolidato, era considerata un problema presso quelle popolazioni. Per scoprire poi – dopo aver scalato montagne e aver vissuto nei villaggi trascrivendo storie di bambini e adolescenti – che invece in quella comunità le norme erano fluide, la verginità era un valore celebrato a parole ma tenuto in scarsa considerazione in pratica. Insomma i costumi samoa, secondo quanto documentato da Margaret Maed non erano affatto “primitivi”o retrogradi. E risuonavano profondamente con i valori rivendicati dalla generazione di Maed, quella più giovane e colta degli anni Venti. Alle spalle del suo lavoro, grazie a Boas, c’era una lettura dell’antropologia non solo come una scienza ma anche come vissuto e come esperienza non da idealizzare o museificare ma da cui trarre insegnamenti in una prospettiva di liberazione. Per questo le idee di Boas, indirettamente, aiutarono la lotta delle donne contro l’ordine patriarcale. Molti studiosi prima di lui avevamo lanciato teorie pretestuose su ciò che ai loro occhi era naturale. Boas suggerì che quelle cose potevano non essere così naturali, dopo tutto.

L’articolo prosegue su Left del 23-29 ottobre 2020

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