Nel 2016 Andrew Spannaus, giornalista e analista politico americano, è stato uno dei pochi che ha previsto la vittoria di Trump in un libro dal titolo eloquente: Perché vince Trump. Ora è in libreria con un nuovo saggio – L’America post-globale. Trump, il coronavirus e il futuro (edito da Mimesis) – dove fa un bilancio della presidenza Trump ed evidenzia come la pandemia acceleri un processo di ristrutturazione della globalizzazione, già in corso prima dell’avvento del virus. L’abbiamo intervistato sui temi trattati nel suo libro e sulle imminenti elezioni americane.
Come giudica questi 4 anni di amministrazione Trump?
Io preferisco guardare alla presidenza Trump dal punto di vista della sostanza, per vedere cosa è cambiato politicamente. Dal punto di vista sociale è ovvio che si dia un giudizio negativo perché Trump divide e non unisce il Paese. Ma se guardiamo alla presidenza Trump in termini realistici, sono convinto che guarderemo in futuro a questa presidenza come a una che ha impresso cambiamenti significativi, su temi quali il protezionismo economico, gli accordi commerciali e il rapporto con la Cina. Questo ha portato a una nuova politica industriale e a un maggiore ruolo dello Stato nell’economia.
A cosa corrisponde il “cambiamento di fase” a cui rimanda il titolo del suo libro?
Corrisponde a una revisione di alcune politiche legate alla globalizzazione, processo iniziato negli anni 70 e sviluppatosi negli anni 90 con una maggiore finanziarizzazione e con la delocalizzazione della produzione. Questa visione che mette il mercato e i parametri finanziari sopra tutto non può più sopravvivere; questo è ormai evidente per due motivi: uno politico, che fa capo alle rivolte populiste in tutto il mondo occidentale, e uno economico, legato alla mancanza di stabilità e di resilienza del sistema globale, come ora vediamo durante la pandemia.
L’unilateralismo della politica americana non è portatore di tensioni in campo internazionale?
Io sono scettico su una contrapposizione tra unilateralismo e multilateralismo in termini assoluti, dipende dal modello che il multilateralismo promuove. Riguardo alla politica estera, Trump non vuole sicuramente esportare la democrazia come qualcuno pensava di fare con interventi militari. Preferisce usare la sua tattica ruvida per poi trattare con i singoli Stati. Io penso che l’unilateralismo americano sia semplicemente una politica più realistica e che il multilateralismo sia in molti casi una copertura dei veri interessi in gioco. Trump afferma senza mezzi termini che “noi dobbiamo perseguire i nostri interessi”.
La presidenza Trump si è caratterizzata anche per il negazionismo climatico, l’abbandono degli accordi di Parigi e la revisione in peggio di molte normative ambientali approvate da Obama. Con Biden cambierebbe qualcosa sul tema della protezione dell’ambiente?
Sì, penso che sicuramente Biden rientrerebbe negli accordi di Parigi e spingerebbe per iniziative green all’interno degli Stati Uniti, ma ben lontani da quello che chiede l’ala sinistra del partito democratico. Cioè sempre in un’ottica business. Bisognerebbe comunque avere un approccio più razionale e meno ideologico al problema della crisi climatica da ambo le parti, che porta a minimizzare o a esagerare le misure di contrasto all’inquinamento a seconda dello schieramento.
Qual è il fattore che sarà determinante per i risultati delle elezioni americane tra la gestione della pandemia e il rinfocolarsi della questione dell’ingiustizia razziale?
La pandemia, perché sottolinea il modo erratico di governare di Trump. Ha messo il buon andamento dell’economia davanti alla necessità di arrestare la virulenza del virus. Questo metodo in un momento di grave crisi della nazione viene visto come un segno d’inadeguatezza. Penso che ciò peserà soprattutto sugli over 65, preoccupati maggiormente per la propria salute.
Sulla violenza contro gli afroamericani, penso che il concentrarsi di Trump sul motto “legge e ordine” abbia dimostrato una mancanza quasi totale di empatia nei confronti delle vittime degli episodi di razzismo ed è parso come un tentativo di aizzare gli scontri.
C’è un dibattito aperto a sinistra sulle politiche che Biden attuerebbe qualora diventasse presidente, se più o meno socialiste. Lei come la vede?
Sono ottimista con cautela. La grande ironia è che nelle primarie Biden si presentava come moderato, ma adesso a causa della pandemia dice di voler fare politiche fortemente progressiste, presentando un programma con investimenti fino a 3,5/4 mila miliardi di dollari (quasi il 20% circa del Pil) in infrastrutture, energia e sanità. L’ala progressista non avrà gran peso nelle decisioni. Comunque molto dipenderà dalla squadra di governo che Biden sceglierà.