Il 2020 è stato per molti versi un anno senza precedenti. Mano a mano che ci avviciniamo al suo termine, compaiono ovunque sui social meme che hanno tutti in comune l’espressione di un sentimento di inquietudine rispetto a quello che ci attende allo scoccare della mezzanotte e dell’inizio di un nuovo anno, compreso uno che preannuncia proprio che alle 23:59 del 31.12.2020 seguiranno le 00:00 del 01.13.2020, come se l’incubo non dovesse mai finire; corpi e volti in attesa a cauta distanza da una porta socchiusa; un’onda gigantesca che rappresenta il 2020 seguita da una ancor più enorme che porta la scritta 2021, ecc. C’è anche chi ha definito la seconda onda di Covid come uno “tsunami” rispetto alla prima ondata. In mezzo a tutte queste immagini e quest’atmosfera apocalittica, il risultato delle elezioni nordamericane, che ci hanno tenuti col fiato sospeso per quella che è sembrata un’interminabile settimana, ha marcato una discontinuità insperata, come se potessimo ritornare tutti finalmente a respirare.
La sensazione è davvero quella che si sia aperta una nuova era storica sul finire di un anno che è stato percepito globalmente come un anno disastroso. Eppure, l’inizio della storia è, come accade spesso, da ricercare un po’ più indietro del determinato punto prefissato, e che per la maggior parte di noi coincide con lo scorso marzo. Dall’altra parte dell’oceano, infatti, la coltre fitta e cupa era scesa sulle istituzioni democratiche statunitensi e sul popolo Usa, che si era espresso in maggioranza contro colui che sarebbe poi diventato presidente (il sistema elettorale americano prevede la possibilità che il candidato che vince al voto popolare possa comunque non ottenere la presidenza), ben quattro anni fa. Chi si trovava a New York quattro anni fa durante le precedenti elezioni si ricorderà infatti che nello spazio di una manciata di minuti il mondo si è capovolto. A chi beveva ad Harlem contemplando in tranquillità l’arrivo di risultati che sembravano tutti seguire la rotta prestabilita è bastata una breve camminata su per la collina di Morningside Heights per ritrovare colleghi e amici in una inquietante e bizzarra istantanea di pizze e bicchieri di birra sospesi nell’aria (segno dei preparativi di una festa precedente poi mai avvenuta o rimasta in sospeso per quattro anni), facce attonite, un silenzio spettrale ed una sostanziale immobilità. Non occorreva tornare a rivolgere lo sguardo verso lo schermo per capire che il mondo si era appena capovolto. Quella notte il tempo si è fermato per un momento. E il mattino dopo New York ha conosciuto per la prima volta il suono del silenzio.
È dunque importante riflettere su quello che significa questo risultato sul finire di un anno così drammatico, al termine di quattro anni di presidenza Trump. È importante soprattutto perché, indipendentemente da quello che sarà il futuro di un paese spaccato in due, e del governo di un partito che ha al suo interno forze e correnti eterogenee, il popolo statunitense si è espresso, non solo alle urne, non solo tramite voto postale, ma anche nelle piazze e nelle strade, che dall’est all’ovest di un paese sterminato, hanno risuonato spontaneamente insieme (i video girati dai piani alti dei grattacieli newyorkesi in cui tutta la città risuona all’unisono tolgono il fiato), quasi a voler riprendere quella festa interrotta quattro anni fa.
È importante perché questa improvvisata versione statunitense di una Festa della Liberazione dà speranza e potrebbe ispirare chi agirà nel futuro politico italiano e internazionale. Nel tempo sospeso fra il rosso e il blu dell’interminabile “Election Day”, “Election Night”, “Election Night Continued”, e infine “Election Week” si confrontavano infatti due risposte opposte, una al suo termine, l’altra al suo inizio, a tre sfide globali che ci riguardano tutti: la pandemia covid 19 e le conseguenti emergenza sanitaria e crisi economica, da un lato, e, dall’altro, le lotte sociali contro il razzismo sistemico e il cambiamento climatico.
Un paese che era, e resta certo, spaccato in due, un paese dalle coste blu e dall’interno rosso, un paese delle periferie contro i centri cittadini, del nord contro il sud, fatte salve le inattese sorprese (una fra tutte, la Georgia), dei trumpisti che votano ai seggi senza maschera e dei dem che hanno votato per posta (lo spot CNN suona “This is a mask. This is not a political statement. It’s a mask. Please wear a mask. #FactsFirst”), dei lavoratori che votano per Trump, di Trump sconfitto che non si vuole tale e che dice che è lui a rappresentare i lavoratori e non i dem, e tuttavia “un paese di possibilità”, ci dice il neoeletto Presidente Joe Biden.
Un paese che ha dato prova di un impegno civico diffuso e di quella che qui come oltreoceano abbiamo imparato a definire resilienza. La resilienza di cui il popolo americano ha dato prova nel corso degli ultimi quattro anni e dei picchi drammatici di contagi e morti dell’ultimo anno (nonché del tasso di disoccupazione), con le annesse immagini raccapriccianti dei camion carichi di corpi coperti dai lenzuoli ospedalieri, delle fosse comuni a Hart Island, dei morti che non avevano avuto accesso alle cure ospedaliere perché sprovvisti di assicurazione sanitaria, fenomeno che ha coinvolto in particolare le minoranze, e di un presidente che si ostinava a non indossare la mascherina e a chiedere se non fosse possibile iniettare disinfettanti. Chi ha avuto occasione di conoscere, apprezzare e disprezzare questo paese, non potrà che condividere l’idea che l’America torni ad essere l’America solo ora. Non è dunque un caso che Biden utilizzi una retorica covidiana quando afferma che “questo è il tempo per guarire in America”, che questo è il tempo per curare “l’anima dell’America” (qui sembra quasi di ascoltare una versione a stelle e strisce della teoria della “cura dell’anima” del filosofo ceco Jan Patočka di cui abbiamo avuto modo di occuparci nel nostro precedente intervento per Fondazione Feltrinelli).
“Good evening” “Good evening” “Good evening” è l’apertura del primo discorso alla nazione della neoeletta vicepresidente Kamala Harris, prima donna, prima donna afroamericana, prima donna di origini asiatiche, e prima figlia di immigrati a occupare la carica di Vicepresidente degli Stati Uniti. «La prima, ma non l’ultima», dice lei, rivolgendosi alle giovani ragazze che non dovranno più temere che determinate strade siano loro precluse e ricordando le «donne nere, asiatiche, bianche, ispaniche, nativo americane, che nel corso della storia di questo paese hanno aperto la strada per questo momento, si sono sacrificate per l’uguaglianza, la libertà e la giustizia» (altro tema, quello del sacrificio per la libertà, molto caro a Patočka, così come quello della “solidarietà degli scossi” al fronte, che sembra riecheggiare nelle parole finali del discorso di Biden: «Smettere di vedere i nostri oppositori come nemici»). Questa vittoria, quantomeno a livello simbolico, rappresenta un segnale, soprattutto se la si inscrive nella cornice di anni di lotta per la giustizia razziale delle comunità afroamericane e del movimento Black Lives Matter, la cui portata si estende ben oltre il continente americano, e che ha avuto risonanza globale all’indomani della morte di George Floyd e degli 8 minuti e 46 secondi di silenzio osservati nelle piazze di tutto il mondo durante i flash mob “I can’t breath”.
Come preannunciava il tweet di Greta Thunberg «Every election is a climate election», fra le grandi sfide transnazionali dell’era attuale che erano in gioco durante le elezioni americane, c’era anche quella climatica. Un altro tema sostanziale delle politiche di Joe Biden è in effetti il ritorno della tutela ambientale globale al centro dell’agenda politica americana. L’accordo di Parigi sul clima, che nel 2015 ha riunito le istituzioni e le città più importanti del mondo attorno alla decisione di limitare le temperature medie globali, fu siglato da Barack Obama con l’obiettivo di consolidare la leadership americana attraverso il cosiddetto “soft power”. L’accordo traccia un nuovo percorso mondiale verso il contenimento del cambiamento climatico e una progressiva transizione ecologica del sistema produttivo. Gli accordi di Parigi sono stati una risposta istituzionale alle emergenti e sempre più pressanti mobilitazioni giovanili in tutto il mondo, culminate nelle marce globali del Fridays for Future, in cui centinaia di migliaia di giovani e studenti si danno appuntamento nelle piazze mondiali per rimettere al centro del dibattito politico la lotta al cambiamento climatico. Con il suo «Make America great again» Donald Trump ha ribaltato l’accordo del predecessore, guardando maggiormente all’economia tradizionale americana e ai lavoratori della Rust Belt dove, nella sfida con Clinton, aveva ottenuto decisivi risultati elettorali. Il passo indietro degli Usa nell’accordo di Parigi ha frenato e indebolito le politiche di tutela ambientale, riscaldato l’anima delle mobilitazioni internazionali e costretto i democratici a riprendere con più insistenza un tema sentito come fondamentale per il futuro del mondo. Ora Joe Biden ha l’opportunità di riprendere in mano gli accordi di Parigi e proseguire la strada battuta da Barack Obama. Sarà importante per Biden ristabilire un clima di fiducia con le grandi mobilitazioni studentesche di quest’epoca, e dimostrare che gli Usa e l’Europa possono riprendere un cammino insieme verso una nuova concezione della lotta ai cambiamenti climatici e per la transizione ecologica.
Le tre grandi sfide di oggi, quella climatica, quella della giustizia razziale e sociale, e quella delle migrazioni erano dunque al centro di un’elezione storica che ha visto una partecipazione popolare senza precedenti, nonostante il covid, e che ha marcato una rottura netta rispetto all’era precedente, aprendo dunque un nuovo ciclo. Indipendentemente da quelli che saranno le delusioni e i successi delle future politiche di Joe Biden e Kamala Harris, il popolo americano si è espresso col voto e nelle strade, in favore della salvaguardia delle istituzioni democratiche, della tolleranza, della libertà e della giustizia. I movimenti sociali, il mondo culturale, le minoranze, i giovani, le donne, sono scesi nelle strade dell’intero paese, in quello che è stato il più grande festeggiamento spontaneo della storia degli Stati Uniti, una lezione di rappresentanza democratica e partecipazione politica che dovrà valere anche per l’Europa e per l’Italia.
La questione della migrazione in particolare si trova ora di fronte a un triplice momento spartiacque, a livello globale, europeo e nazionale, in considerazione della discussione, rispettivamente, dei due Global Compact per la migrazione (OIM) e per i rifugiati (UNHCR), del Nuovo Patto sulla Migrazione e l’Asilo, e del Disegno di legge C. 2727, ovvero la “conversione del decreto-legge 21 ottobre 2020, n. 130, recante disposizioni urgenti in materia di immigrazione, protezione internazionale” di cui la I Commissione della Camera ha avviato l’esame il 29 ottobre scorso.
Per affrontare queste sfide insieme al pubblico italiano ed internazionale, Agora Europe lancia la nuova serie di podcast e interviste video “Otherside//Europe” sul tema dell’acqua come frontiera, e in particolare su migrazioni, salvataggio in mare, ambiente, protezione dell’oceano, inquinamento delle plastiche, per offrire delle visioni dell’Europa da oltremare e oltreoceano. Il progetto è coordinato da Agora Europe, in collaborazione con Columbia University (Alliance Program e Committee on Forced Migration), Maastricht University, Fondation Maison des Sciences de l’Homme e Club Maritime Hendaye Txingudi; immagini di Gianluca Costantini e musiche di Giovanni Briganti. Il lancio avverrà questa settimana sul sito dell’associazione agoraeurope.eu, sui social @agoraeurope e sul canale You Tube “Agora Europe”, nonché sulle piattaforme online di tutti i partner coinvolti. Dal mondo universitario europeo e d’oltreoceano, parteciperanno Etienne Balibar, Sandro Mezzadra, Daniel Inerrarity, Souleymane Bachir Diagne; tra i navigatori oceanici, Giovanni Soldini e Ambrogio Beccaria; tra le organizzazioni governative e non governative, Salvamento Maritimo, Salvamento Maritimo Humanitario-Aita Mari, Mediterranea, Open Arms, Sea-Eye, Sea-Watch, Amel, Baobab e EuroMed Rights; fra i parlamentari e gli europarlamentari, gli On. Rossella Muroni, Erasmo Palazzotto, Massimo Ungaro, Pietro Bartolo, Brando Benifei e Pierfrancesco Majorino.