Fra pochi giorni conosceremo il piano che il governo Draghi presenterà all’Europa. Appena la Commissione europea lo approverà cominceranno ad arrivare al nostro disastrato Paese circa 200 miliardi di euro, scaglionati in cinque anni. Se saranno sufficienti per uscire dai terribili guai sociali in cui la pandemia, e la crisi ambientale ad essa connessa, hanno fatto precipitare non solo l’Italia, ma l’intero mondo è prematuro stabilirlo ora, così come lo è esprimere un giudizio compiuto del progetto, del quale per altro si sa veramente molto poco.
La sua elaborazione sembra più criptica e oscura di quella che tentò di fare il precedente governo Conte, prima che l’affarista Renzi e la sua combriccola di Italia viva lo affondasse, sentendosi troppo lontana dai centri di spesa dei soldi europei. Per ora non si va oltre i soliti titoli, continuando a ripetere al Paese esausto che useremo quei soldi per costruire un’Italia più digitale e più verde. Intanto va fatta una considerazione, al di là dei contenuti del piano, sul senso dell’agire locale: interrogarsi cioè su quanto una azione locale sia riuscita a rimanere collegata a un pensare globale.
Provo per esempio a connettere il mio tentativo di creare una comunità energetica in un quartiere di Roma con i dati sconvolgenti sulla pandemia che arrivano dal Brasile, oppure con l’impegno che servirebbe per avviare la transizione ecologica auspicata. Avverto l’azzardo e la sproporzione di questo tentativo fra il mio agire locale e il mio pensiero globale, al punto di domandarmi che senso abbia il mio progetto da avviare nel quartiere, se poi alla fine sulla terra prevale il coronavirus o se desertificazione e altri eventi estremi renderanno, non solo il quartiere, ma il pianeta tutto inabitabile. Per capire che il nesso fra l’agire locale e il pensiero globale si è perso basta sapere che appena il Consiglio europeo ha deciso di rispondere alla crisi con il Next Generation Ue, ogni Paese ha preparato il proprio progettino. Anche ogni forza della cosiddetta società civile ha ragionato dimensionando le proposte solo ed esclusivamente su scala nazionale.
È stato così per la Spagna, che ha presentato solennemente nei giorni scorsi il proprio programma, ma si è ben guardata dal coordinarlo con gli altri Paesi del sud europeo, come invece fece quando insieme all’Italia e al Portogallo spinse l’Europa a incamminarsi sulla strada del Next Generation Ue. È vero, ci sono le linee guida della Commissione europea, ma come sempre sono a maglie larghissime, e quindi ogni Stato, a seconda della forza reale che esprime, le interpreta a suo piacere. La stessa soffocante dimensione nazionale si è avuta sul come fronteggiare la pandemia. Da una parte si afferma che non c’è possibilità di sconfiggere il virus se non si dà una risposta globale, ma poi un’azione coordinata a livello mondiale è inesistente, infischiandosene così dei tremila decessi al giorno del Brasile.
Sarà forse solo il retropensiero di un inguaribile vecchio comunista quale sono, per giunta anche ambientalista, ma mi chiedo come sia possibile dare credibilità alle sanzioni verso questo o quel dittatore, sudamericano o asiatico che sia, quando chi le propone, a occidente, non pensa minimamente a come rimuovere Bolsonaro e fermare il vero e proprio genocidio a cui sottopone il suo popolo. La risposta a questo banale interrogativo è semplice: non basta indignarsi e denunciare le nefandezze dei decisori politici, ma occorre interrogarsi anche sull’inadeguatezza della cosiddetta società civile. Così come è giusto, ma un poco tardivo, denunciare i brevetti sui vaccini, dopo che sono stati scoperti e realizzati dalla ricerca privata finanziata con tanti soldi pubblici. È cioè già troppo tardi per riuscire a impedire che la campagna vaccinale sia affidata al mercato che ha ormai scatenato una guerra commerciale fra ditte farmaceutiche. Nel frattempo il virus continua a mutare e a sterminare la popolazione, anche giovane, di larghe parti di quello che ancora chiamiamo impropriamente mondo sottosviluppato, né si riesce a proteggere la popolazione anziana dei Paesi più o meno ricchi. Se un vaccino è sottoposto a queste regole, figuriamoci le politiche che puntano a prevenire e a intervenire sulle cause che hanno determinato questa pandemia.
In fondo è la stessa logica con cui si è faticosamente avviata la lotta al cambiamento climatico. Anche sulla transizione ecologica, di cui si parla e spesso si straparla, stenta a farsi strada una necessaria, perché sia efficace, risposta globale. Si ferma alle solenni assemblee dell’Onu, come l’ultima di Parigi, dove si fanno accordi e poi ognuno si organizza come vuole o come può. Dopo oltre trent’anni di conferenze intergovernative e di impegni dichiarati per far diminuire le emissioni c’è voluto un malefico virus per ridurle davvero, un virus che ha obbligato a fermare almeno una parte delle attività che generano gas serra.
Recuperare il nesso fra l’agire locale e il pensiero globale è lavoro di lunga lena, da iniziare subito. Non avrebbe alcuna credibilità la transizione ecologica che vuole promuovere l’Europa, se poi la sua Commissione e lo stesso Parlamento europeo e gli Stati che lo compongono non provano a far nulla per impedire ai giapponesi di sversare in oceano oltre una tonnellata di acqua radiottativa. Cambio climatico, virus e conseguente crescita di disuguaglianze impongono alla nostra riflessione due questioni: prendere atto dell’inconsistenza dell’Onu, della sua incapacità a decidere alcunché, e quindi la riproposizione di una mobilitazione sociale per la sua rifondazione. Qualcuno ricorda i Social forum, i grandi appuntamenti globali di Porto Alegre? L’ambizione dell’agire locale per essere efficace deve riaquisire quella dimensione. Quel movimento globale nacque per impedire che la guerra fosse lo strumento per dare soluzione ai conflitti. Certo non ci riuscimmo, ma quella dimensione è l’unica ancora in grado di dare efficacia alla lotta ai cambiamenti climatici.
Che oggi siamo distanti da questo modo di concepire l’azione è evidente, così come è chiaro che diversi sono i soggetti che possono promuoverla. Prima di chiudersi in una discussione sterile sull’esigenza di dar vita a un nuovo soggetto della sinistra, sociale o politico, partito o movimento che sia, forse sarebbe il caso di trarre ispirazione e misurarsi con due movimenti sociali, che hanno già acquisito una dimensione globale: quello femminista e quello ecologista del Fridays for Future. Loro producono già quel nesso fra l’azione locale e il pensiero globale e da qui che potrebbe partire una nuova stagione di forum sociali, riportando al centro di un’azione politica collettiva la possibilità e necessità di quel mondo diverso che era proprio lo slogan di Porto Alegre.
(nella foto manifestazione dei Fridays for Future, Berlino, 24 aprile 2020)