Doveva essere la grande occasione per superare il divario nei servizi per la prima infanzia presente in Italia. E invece il Piano nazionale di ripresa e resilienza (Pnrr) inviato a Bruxelles dimostra che l’attenzione che il governo Draghi riserva alla questione educativa dei primi anni di vita di un bambino è ancora insufficiente rispetto ai bisogni reali del Paese e rispetto al diritto ad avere un servizio di qualità fin dalla nascita, come del resto stabilisce la legge 65 del 2017 che supera il concetto di «temporanea custodia» delle prime norme in materia, risalenti a 50 anni fa.
Secondo l’obiettivo fissato nel Consiglio europeo a Barcellona nel 2002, gli Stati membri si sarebbero dovuti impegnare a offrire servizi di prima infanzia almeno al 33% dei bambini sotto i tre anni. In Italia, come evidenzia bene l’ultimo rapporto Openpolis/Con i bambini, siamo al 25,5%, con 18,5 punti di divario tra Centro-nord e Sud. I bambini tra 0 e 2 anni nel 2020, ricordiamo, erano un milione e 300mila.
Secondo una bozza del Pnrr del 23 aprile i 4 miliardi e 600 milioni di investimenti per la prima infanzia sarebbero serviti per «la creazione di circa 228mila posti, di cui 152mila per i bambini 0-3 anni e circa 76mila per la fascia 3-6 anni». Nella stesura definitiva del Piano, la distinzione tra nidi e scuole dell’infanzia è scomparsa. Rimane solo la cifra generica di 228mila posti. Secondo la sociologa Chiara Saraceno, che si occupa da molto tempo della famiglia e delle politiche sociali ed è portavoce del think tank Alleanza per l’infanzia, questa modifica «è sicuramente allarmante perché già il numero previsto era al di sotto di quello che noi come Alleanza per l’infanzia e la rete EducAzioni avevamo stimato come necessario, cioè che fosse almeno di 300mila posti per…
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