«La memoria è lotta». Così recitava la maglia indossata da Haidi Giuliani in piazza Alimonda il 20 luglio scorso in un’assolata Genova. In quelle parole c’è un significato profondo, che bisogna saper cogliere. In queste giornate, una delle cose che più si è ripetuto di più è che «avevamo ragione noi». Purtroppo, però, non basta dirlo e, a furia di ripeterlo, si corre il rischio di divenire grotteschi e petulanti. Non è per questo che bisogna ricordare. Ciò che il movimento no global intuì fu il fatto che il capitalismo, segnatamente nella sua versione globalizzata e neoliberista, avrebbe favorito la concentrazione della ricchezza fra le mani di pochissimi super-potenti a discapito dell’umanità e del pianeta in cui abitiamo.
Durante il ventennale del G8 ci sono stati molti momenti di aggregazione e belle manifestazioni che non si vedevano da tempo. Si è celebrato – com’era doveroso fare – il ricordo di Carlo. Nei telegiornali e sulla stampa, per la prima volta, si è aperto uno squarcio di verità sulle violenze brutali compiute da reparti scelti delle forze dell’ordine a danno di centinaia di migliaia di manifestanti inermi che scesero in piazza per contestare il G8. Amnesty International ha rilanciato una campagna per chiedere il numero identificativo degli agenti in divisa. Sono tutti alcuni significativi passi in avanti. Ma non basta. Spenti i riflettori sulla ricorrenza, non sono emerse le ragioni reali per cui, dal 1999 al 2002, il movimento no global si mobilitò in tutto il pianeta per contestare i vertici della Banca Mondiale, del Fmi, del Wto, dell’Ocse e di un’infinità di altri macro-organismi che riuniscono i Paesi a capitalismo avanzato e in cui si discutono i diktat neoliberisti che vengono imposti ai tre quarti dell’umanità. E non basta anche perché nei diversi ambiti in cui si è parlato del movimento no global si danno per scontate una serie di cose, che non lo sono affatto.
Troppo spesso si scade in un discorso retorico sulla spirale violenza/repressione di cui è importante parlare, ma che non può sussumere l’intero dibattito sulla contestazione al capitalismo e sull’immaginario di un’intera generazione che si mobilitò contro l’ordine costituito. In Italia, quando si parla dei “no global”, ci si riferisce essenzialmente all’esperienza di Genova, ma non la si contestualizza, né la si approfondisce, preferendo allo studio e alla ricerca, l’artifizio degli slogan raccontati attraverso le immagini. È fondamentale spiegare soprattutto a chi non c’è stato cosa sia realmente accaduto.
La contestazione al G8 non nacque per puro caso, ma venne preceduta da una lunga preparazione e da un’incubazione tanto delle strategie del dissenso, quanto della repressione. L’episodio-chiave, che nell’analisi generale del movimento finora è incredibilmente stato omesso, è la contestazione al Global Forum dell’Ocse che si svolse nel marzo 2001 a Napoli. Decine di migliaia di persone, provenienti da tutta Italia e da diversi Paesi d’Europa, per quattro giornate si mobilitarono contro il capitalismo pochi mesi prima del G8 e sperimentarono sulla loro pelle tanto la «macelleria messicana», quanto il continuismo fra centrodestra e centrosinistra nella gestione del dissenso. Non a caso, sia col governo Amato (Napoli), sia col governo Berlusconi (Genova), il capo della Polizia fu Gianni De Gennaro.
La corretta ricostruzione di ciò che accadde su scala planetaria è stata oggetto di ricerca dell’opera: Da Seattle a Genova. Cronistoria della Rete No Global (DeriveApprodi, pg. 320, euro 20) da me curata, cui hanno partecipato decine di attivisti, lavoratori, intellettuali, esponenti della società civile. Questo lavoro, che avanza per la prima volta l’arduo compito di un bilancio politico, rifugge dalla retorica o dal “reducismo”, affrontando a viso aperto una vasta gamma di aspetti anche controversi che segnarono il movimento no global. Il punto focale di questo lavoro risiede nel voler spiegare a chi non ha vissuto quella formidabile stagione di lotte ciò che è realmente accaduto. Per farlo, si è scelto stilisticamente di costruire un ibrido letterario, o uno scritto ipertestuale, che ricomponesse le trame di quel movimento, riproducendone fedelmente i linguaggi, le culture, i punti di vista.
Ne è nato un libro suddiviso in cinque sezioni: una narrativa, il cui autore è lo studioso Francesco Festa; una di inchiesta giornalistica, in cui si ricostruisce sul campo la cronistoria della Rete No Global, descrivendone la genesi, le pratiche, la composizione di classe in relazione al contesto del Mezzogiorno. Fra le numerose testimonianze spicca quella di Don Vitaliano Della Sala, il parroco no global, che ha contribuito al libro con un’intervista e delle lettere finora inedite. Poi, si passa all’incubazione del G8 di Genova, documentando rigorosamente le violenze perpetrate a danno dei manifestanti tanto in piazza quanto nella Caserma Raniero, su cui – dopo la produzione di un libro bianco – ne scaturì un’inchiesta giudiziaria ad ispettori e funzionari della Polizia di Stato, che ha avuto dopo dodici anni un esito controverso. Segue poi, un’importantissima sezione archivistica, cui ha dato un fondamentale contribuito il ricercatore Fabrizio Greco, e una sezione visiva, cui hanno contribuito le foto di Luciano Ferrara, le grafiche di Massimo Di Dato/Karl Max e i manifesti di Francesco Sollazzo.
L’idea è quella di costruire una narrazione corale del movimento no global, dando a chi non è stato in quelle mobilitazioni tutti gli strumenti conoscitivi per potersi formare un’opinione, sfuggendo a cliché e revisionismi. Conoscere realmente cos’è accaduto in passato, ci può aiutare a ricostruire conflitto contro le ingiustizie odierne. In base alle stime della rivista Forbes, durante la pandemia da Covid-19, sono addirittura aumentati i super-ricchi nel mondo, grazie a piattaforme di e-commerce, iper-sfruttamento del lavoro, devastazione ambientale. Non dobbiamo fare in modo che la memoria si ossifichi o subisca un processo di svuotamento dal suo portato reale. Il capitalismo si presenta come l’ultimo stadio evolutivo della nostra specie. Siamo più che mai una società posata sulla proprietà privata (lo vediamo col tema dei vaccini), sulle disuguaglianze, sul divario ricchi/poveri, nord/sud, guerra/barbarie. Dovremmo, però, ricordare uno degli slogan del movimento no global, troppo spesso dimenticato: «la storia siamo noi» e sulla strategia gramsciana di quell’esperienza, capace di unire e mobilitare interi settori della società.
Nella foto i manifestanti a Genova 2001