Il poker d’assi l’ha buttato Repubblica con una muscolare paginetta in cui ha messo una di fianco all’altra Federica Pellegrini (la nuotatrice italiana che a 33 anni ha guadagnato una splendida finale) e dall’altra Simone Biles a stella americana della ginnastica che il pubblico vedeva già circondata di ori, e che ieri ha dichiarato di voler rinunciare alle Olimpiadi di Tokyo per dedicarsi alla cura della sua salute mentale: “La forza e la fragilità”, titola Repubblica e più sotto il sottotitolo “La forza e la fragilità, le donne protagoniste a Tokyo. Pellegrini infinita, Biles in tilt”.
Accade con Repubblica ma accade in realtà ogni volta che qualcuno, un persona qualsiasi, decide di arrogarsi del diritto di non provare a vincere, di non dedicarsi al ruolo che pubblicamente lo definisce (come se non avesse un’identità proprio fatta di mille rivoli) e accade ogni volta che qualcuno ha il coraggio di dire al mondo che in quel momento no, proprio non ce la fa. Il diritto di essere fragili è diventata un’onta che si deve scontare, come se fosse un tradimento alla narrazione generale che invece ci vuole sempre felici, sempre vincenti, sempre performanti, sempre sorridenti. Sempre instagrammabili, si potrebbe dire per condensare il dovere di questo tempo con un cacofonicisissimo neologismo.
Siamo ancora ai tempi in cui il modello è quello dell’infallibilità nonostante sia una truffa: siamo essere fallibili e imperfetti, perdiamo tutti noi decine di volte al giorno, sconfitte minime, delusioni che si posano come polvere. Io, non so voi, mi deludo tutti i giorni, più volte al giorno, prima e dopo i pasti, di solito mi delude già la colazione che mi immagino epocale quando apro gli occhi e invece è la mia prima sconfitta. Ma se lo dici sei un perdente.
Il diritto alla fragilità andrebbe aggiunto nella Costituzione, bisognerebbe cominciare fin da piccoli a raccontare come sia coraggioso dirsi che no, che quella parte in cui ho primeggiato non è mica un ruolo che riesco a tenere sempre e per sempre. Vincerò ancora, sicuro, ma poi perderò moltissimo e ce la metterò tutta a imparare a perdere ogni volta un po’ meglio.
Dentro c’è tutta la stortura con cui oggi si guarda pregiudizialmente il disagio mentale, che continua a essere uno stigma perché a differenza delle altre malattie non sanguina e non si vede dalle lastre e c’è dentro anche un machismo sentimentale che fa a gara a scovare i deboli dappertutto, nelle diverse situazioni, con tutte le loro diverse declinazione.
Eppure basterebbe pensare che dietro a un vincitore perché risulti primo c’è una lunga sequela di sconfitti e che al di là del risultato sportivo forse sarebbe il caso di cominciare a scrivere anche un’apologia dei secondi perché lì c’è il 99% del mondo. Mollare una gara (che sia sportiva o che sia una delle mille gare quotidiane che corriamo ogni giorno nella nostra quotidianità) significa avere cura di se stessi e consapevolezza delle proprie forze. Sicuramente non ti fa vincere una medaglia, certo, ma lì dentro ci vedo un coraggio non indifferente.
Dice Simone Biles che in questo momento non riesce a tenere “il mondo sulle spalle” e “il mondo” tutto intorno si è risentito additandola come debole: in fondo ha confermato la tesi.
Buon giovedì.