Nel novembre 1989 la caduta del muro di Berlino, ultimo baluardo della Guerra fredda, segnò anche l’inizio della “svolta” che, due anni dopo, portò allo scioglimento del Partito comunista italiano. In quei giorni mi trovavo con una classe di un liceo fiorentino in Polonia, per uno scambio culturale con studenti del più antico liceo di Varsavia. Ogni ragazzo era ospite della famiglia di un compagno, noi accompagnatori nella foresteria dell’Università Copernico. La primavera successiva studenti e docenti polacchi arrivarono a Firenze. Fu un’esperienza memorabile, ed allo stesso tempo conclusiva di un mondo, e di un modo “integrale” di vivere la scuola che sarebbe presto tramontato.
Trent’anni sono trascorsi, e da allora pressoché nessun governo ha trascurato di apportare una qualche modifica all’ordinamento della scuola e dell’università, a partire dalla riforma di Luigi Berlinguer, che istituì la laurea triennale, destinata a mutare radicalmente anche la formazione del personale insegnante. Il principio guida allora dichiarato fu quello di favorire la continuità tra scuola e lavoro. Ma l’impressione era che la scelta politica tendesse anche alla progressiva dequalificazione della pubblica istruzione a favore della scuola privata o parificata che, composta per lo più di istituti cattolici o comunque improntati su principi liberisti, fu poi definita paritaria. Impresa economica foraggiata dallo Stato, che ad esempio pagava interamente le commissioni esterne della maturità, era riservata alle classi abbienti, destinate a dirigere la società: anche molti rampolli della sinistra si sono formati in quei rinomati collegi. Chi ha fatto esperienza di quegli esami sa di che cosa sto parlando. Poi venne Berlusconi, che istituendo il Miur volle cancellare l’inviso aggettivo, tuttora scolpito a lettere cubitali sulla facciata del ministero in Trastevere, peraltro inaugurato nel 1928 da Mussolini.
L’idea gramsciana di una formazione scolastica che Marx definiva «…
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