Undici anni fa tutti impazzivano di gioia per Wikileaks che aveva dimostrato come il governo Usa fosse colpevole di atti orribili in tutto il mondo. Oggi Julian Assange, che attende il verdetto dei giudici britannici decisivo per la sua vita, è finito nel dimenticatoio

«Dai retta a me, questo non è un Paese da giornalisti giornalisti, è un Paese da giornalisti impiegati», diceva nel film dedicato a Giancarlo Siani il suo direttore Sasà, nel celebre film Fortàpasc. E questa divisione tra i “giornalisti con la schiena dritta” e quelli che invece semplicemente svolgerebbero diligentemente il proprio compitino è una costante anche nell’opinione pubblica, ancora di più in questi ultimi anni in cui i media sono accusati di tutte le sconcezze del mondo.

Eppure i giornalisti giornalisti dovrebbero essere coloro che informano riportando notizie che i potenti non vorrebbero fare sapere. 11 anni fa tutto il mondo impazziva di gioia per Wikileaks e i documenti rilasciati che dimostravano come il governo Usa fosse colpevole di atti orribili in tutto il mondo. Erano quelle stesse azioni che i più arguti potevano solo sospettare e che invece stavano scritte nero su bianco, con nomi e cognomi. Intorno a quell’onda si accodarono tutti i più importati giornali del mondo e Julian Assange divenne un’icona, da stampare sulle magliette: se c’era un “giornalista giornalista” era indiscutibilmente lui. Mica per niente fioccarono i premi (l’Economist, Le Monde, Yoko Ono….) e quell’enorme mole di documenti (qualcosa come dieci milioni dal 2006 a oggi) venne ritenuta la chiave per leggere il presente.

Poi tutto si è spento. Anzi, peggio, molti si sono pentiti. Il giornalista giornalista Assange ha fatto la fine del topo scappando di Paese in Paese per sfuggire agli Usa. Eppure anche qui non dovrebbe sorprendere: incriminare come attentatore della sicurezza nazionale colui che ha avuto la forza di svelare gli orrori americani in Iraq e Afghanistan sembrava una mossa troppo banale per funzionare. Invece funziona, eccome. Così mentre si attende il verdetto della giustizia britannica sulla richiesta di estradizione Usa (Assange, accusato di pirateria informatica e addirittura di spionaggio, rischia una condanna monstre a 175 anni di galera) il mito è decaduto e interessa a pochissimi. L’icona è diventata un disturbo da trattare con indifferenza. La deferenza si è involuta in fastidio.

Perfino un premio Nobel per la pace come Adolfo Pérez Esquivel è intervenuto con un appello: «Ai popoli del mondo, chiese, organizzazioni sociali, sindacati, università, giornalisti, mezzi di informazione e governi democratici, alle donne e agli uomini di buona volontà difensori della libertà e dei diritti dei popoli – scrive Esquivel – La vita di Julian Assange è in pericolo. Il governo degli Stati uniti da anni perseguita Julian Assange, colpevole di aver svelato le atrocità che questo governo ha commesso e commette nel mondo: violenze, invasioni, colpi di stato, omicidi, torture, persecuzioni di Paesi di orientamento ideologico diverso, embarghi, crimini che si tenta di nascondere e che restano totalmente impuniti sia dal punto di vista legale che da quello sociale, nel disprezzo dello Stato di Diritto e in violazione dei diritti umani e dei diritti dei popoli». Per questo il nobel chiede perché l’estradizione «sarebbe la condanna a morte di un difensore della libertà di informazione e una grave minaccia alla libertà di stampa».

Sorge un dubbio: forse insieme ai giornalisti giornalisti e ai giornalisti impiegati ci sono anche i cittadini cittadini e i cittadini impiegati. Sasà non ci aveva pensato. È molto peggio di come temeva.

Buon giovedì.

 

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Autore, attore, scrittore, politicamente attivo. Racconto storie, sul palcoscenico, su carte e su schermo e cerco di tenere allenato il muscolo della curiosità. Quando alcuni mafiosi mi hanno dato dello “scassaminchia” ho deciso di aggiungerlo alle referenze.