«Il fatto che fossimo nati lo stesso giorno era più di una coincidenza. Fin dall’inizio, respirammo la stessa aria; i nostri cuori battevano all’unisono. Ciascuno finiva le frasi dell’altro, sapendo esattamente che cosa aveva in mente, anche quando dormiva Quell’uomo era tutto ciò che volevo, e sapevo che lui provava lo stesso per me Ci sono coppie che, quando iniziano a convivere, comprano pentole e padelle. Ulay e io cominciammo a progettare di fare arte insieme». Il giorno di Natale ho ritrovato tra i miei libri Attraversare i muri, un’autobiografia di Marina Abramović, con James Kaplan. Quando l’avevo letto nel 2016, l’anno nel quale era stato pubblicato, mi avevano colpito alcune frasi che l’artista serba aveva dedicato al rapporto sentimentale con Ulay. Il suo amore grande. Rileggerle mi ha regalato dei bei pensieri. Mi ha messo le ali e portato dall’altro capo del mondo, in Cina. Sulla grande muraglia. Che i due amanti nel 1983 progettano di percorrere da due estremità opposte per incontrarsi nel centro e li sposarsi. The Lovers é una performance, certo. In realtà, molto di più. Un sogno nel quale arte e amore s’intrecciano fino a confondersi. Purtroppo a perdersi, come si sa. Perché l’incontro, a Erlang Shen, Shennu, nella provincia di Shaanxi, il 27 giugno 1988, tre mesi dopo la partenza, prende la forma di un addio. L’amore per Ulay é sfiorito. Ma non per Abramović.
Io non ho mai creduto che l’Amore possa terminare. Finire davvero. Se uno “finiva le frasi dell’altro, sapendo esattamente che cosa aveva in mente, anche quando dormiva”. Sono convinto piuttosto che l’Amore sia una sorta di ordigno. Pronto a deflagrare. Senza preavviso. Quando uno dei due arretra. Si fa da parte. Consegnando l’altro al dolore. Al vuoto. Al buio. Inevitabilmente, ad una nuova esistenza. Come ha saputo restituire Frida Kahlo nel quadro Le due Frida. Nel quale ci sono due autoritratti della pittrice messicana: quella amata da Diego Rivera e quella che invece ha affrontato la loro separazione. Una ha un cuore intatto e tiene in mano un ciondolo con il ritratto di Diego, mentre l’altra ha in mano un paio di forbici insanguinate con le quali ha straziato il suo cuore.
Quando ci si lascia si abbandona una parte di sé. Si é una copia di quel che si è stati. Ma non importa. Aver incontrato l’amore é comunque “bello”. Perché almeno uno dei due continuerà ad avere l’altro, dentro. Per sempre, forse. Ai miei ragazzi in classe, ogni tanto parlo anche di questo. Dell’amore. Lo faccio perché voglio che sappiano affrontarne anche i contrasti. Siano in grado di goderne, senza farsene travolgere. Guardandolo con il necessario equilibrio, loro. Pensandoci con consapevolezza, ma anche con curiosità. Insomma non immaginando che possa essere una condanna. Come per Juan de Marcilla e Isabel de Segura, due amanti spagnoli del XIII secolo. Rappresentati da Juan de Ávalos nel 1955 in un gruppo scultoreo, visibile in un mausoleo aggiunto alla chiesa di S. Pietro a Teruel, in Spagna. Sdraiati, uno accanto all’altro, mano nella mano. Uniti anche dopo la vita. Perché credo che in fondo sia così. Certi amori non finiscono mai. Anche se tormentano. Anche se regalano preoccupazioni. L’importante è portarsi dentro. Come decidono di fare alcuni. Nella speranza di ritrovarsi, un giorno.
È il 14 marzo 2010. Marina Abramović inaugura al Moma di New York la performance The Artist is Present in cui ogni visitatore ha a disposizione un minuto per sedersi, in rigoroso silenzio, di fronte a lei. Provando a specchiarsi in lei. Nel via vai di persone sconosciute, ecco Ulay. Dopo 22 anni. Si siede. Abramović si commuove. Contravvenendo alle regole, allunga le braccia per prendergli le mani. Gliele stringe.
Ho capito come affrontare l’argomento in classe. «Ragazzi, l’Amore grande è per sempre», dirò, sorridendo. Per rassicurarli. Mentre ripenserò alle mani che si ritrovano. Prima o dopo.