L’eco della bocciatura del referendum per la legalizzazione della procedura di morte volontaria etero-assistita – eutanasia secondo i promotori ma in effetti “omicidio del consenziente” ha rilevato la Consulta – non si è ancora spenta che già la decisione di un tribunale impone nuovamente una riflessione sul tema del fine vita. Come riporta l’Ansa, la Procura di Catania ha fatto appello contro la sentenza del Gup che il 10 novembre scorso aveva assolto Emilio Coveri, presidente dell’associazione Exit-Italia, a conclusione del processo per istigazione al suicidio nel 2019 in Svizzera di una 47enne della provincia etnea. Secondo l’accusa Coveri avrebbe «intrattenuto ininterrottamente dal 2017 al 2019» con la signora «plurimi rapporti e conversazioni telefoniche, via sms e posta elettronica» e avrebbe «indotto» la donna, che «soffriva di forme depressive e sindrome di Eagle, ad iscriversi nel 2018 all’associazione Exit».
A differenza dell’eutanasia che richiede l’azione diretta di un medico che somministra un farmaco letale, nel suicidio assistito il ruolo del sanitario si limita alla preparazione del farmaco che poi il paziente assume per conto proprio. Nel 2019, con una storica sentenza evocata dal celebre caso di Dj Fabo, che fu accompagnato a morire in Svizzera da Marco Cappato, fu la stessa Consulta a depenalizzare di fatto questa procedura ma solo in circostanze ben precise, dichiarando così: «Non è punibile», a «determinate condizioni», chi «agevola l’esecuzione del proposito di suicidio, autonomamente e liberamente formatosi, di un paziente tenuto in vita da trattamenti di sostegno vitale e affetto da una patologia irreversibile, fonte di sofferenze fisiche e psicologiche che egli reputa intollerabili ma pienamente capace di prendere decisioni libere e consapevoli».
Come nasce, ci si potrà quindi chiedere, la decisione del gup di Catania? Come avvenne già nel 2013 per il caso del giudice Pietro D’Amico, anch’egli depresso, la paziente in questione non rientrava nelle «determinate condizioni» stabilite dalla Consulta. Tanto la figlia del giudice D’Amico, di cui parlammo su Left, quanto i familiari della donna siciliana, la cui madre, sorella e tre fratelli si sono costituiti parte civile, non hanno mai accettato che il proprio caro, anziché essere curato, venisse indirizzato alla morte. L’elenco dei precedenti è lungo e include anche personalità molto note, come nel caso di Lucio Magri, nel 2011.
Ancora una volta, le istituzioni si pongono dunque correttamente il problema della tutela dei soggetti “deboli”, fra cui rientrano a pieno titolo i pazienti psichici, a cominciare da quelli con diagnosi di depressione. La tutela di questi soggetti è l’interesse primario tanto della recente decisione della Consulta in tema di eutanasia con l’inammissibilità del referendum, quanto di quella del Gup di Catania in tema di suicidio assistito con la richiesta di appello.
In Italia ci sono decine di persone affette da malattie organiche incurabili che sopravvivono in condizioni insopportabili e che si vedono negato il diritto a una morte dignitosa che ponga fine alla sofferenza ogni giorno al risveglio, ammesso che siano riusciti anche solo a dormire. L’auspicio è quindi che la doverosa battaglia per la legalizzazione di queste procedure esca al più presto dalle aule delle corti di giustizia e approdi nel luogo deputato (sic) a fare le leggi su un tema così urgente, il parlamento. Mentre scriviamo ci giunge notizia che la Camera avrebbe dato il via libera alla morte medicalmente assistita, ma con una valanga di emendamenti annunciati.
Resta fondamentale che si faccia il necessario distinguo fra malattie organiche gravissime e incurabili da una parte e patologie psichiche dall’altra, nelle quali, come ha recentemente scritto su Left la psichiatra Daniela Polese, «se una persona depressa vuole suicidarsi si interviene con il ricovero e, se il paziente lo rifiuta, nonostante sia capace di intendere e di volere, si interviene contro la sua volontà per stato di necessità (articolo 32 della Costituzione, articolo 54 Codice penale) o con il trattamento sanitario obbligatorio (legge 833/78), per salvargli la vita». Perché impedire a una persona depressa di suicidarsi non è affatto una negazione della sua libertà.