La cronaca oggi sembra avvalorare la credenza di una ineliminabilità della guerra quasi fosse una “tara” genetica. Con linguaggio creativo l’arte può smascherare questa idea falsa e razionale, affiancandosi all’azione politica di chi difende i diritti umani. In primis quello alla vita

Dopo Bucha e Mariupol ci sarà ancora chi fa poesia? L’oscenità dei traumi della guerra per chi li ha vissuti in prima persona rischia di produrre una anestesia affettiva, una ablazione permanente della fantasia che può uccidere nella culla l’impulso artistico. In altri individui toccati più tangenzialmente, ma comunque coinvolti in eventi tragici, la vitalità può subire una sollecitazione orientata a cercare di dare un senso a quanto di primo acchito sembra non averlo, per rappresentare quanto sembra non rappresentabile: la sfida ad affrontare il dolore immane e drammi sconvolgenti e inenarrabili non può essere elusa da nessuno ma soprattutto dagli artisti. Questi ultimi non possono usare le parole fredde dei commentatori e indulgere alle analisi asettiche dei geopolitici, ma devono ricreare in qualche modo in se stessi la sofferenza che traspare dalle immagini della guerra per trasformarla in un dolore cui si possa attribuire un significato senza volerlo cancellare dalla coscienza.

È quest’ultima la strada percorsa da artisti come Anselm Kiefer: negli anni Ottanta l’artista tedesco approda, nel ricordo dell’olocausto, all’opera colossale che occupa gli spazi come una mostruosa metafora della vergogna, del senso di colpa, o del dolore. Il gigantismo tragico maschera l’impotenza della denuncia che pure storicamente si era avvalsa delle eccezionali capacità espressive di Francisco Goya, che fra il 1810 e il 1820 incise I disastri della guerra, e di Pablo Picasso con Guernica (1939); quest’ultima opera è diventata meta di attrazione turistica a Madrid nonché oggetto di dotte disquisizioni estetiche. Il fare arte, che non si limiti a cercare nella bellezza la consolazione per anime inquiete e tormentate, non riesce da solo a cogliere e fermare quel nucleo di religiosità che si lega alla pulsione di annullamento rivolta contro la realtà umana. È questo nucleo la radice nascosta della guerra per quella mentalità che ritiene il dogma e l’ideologia, il delirio imperiale e onnipotente più importante delle vite e dei sogni dei bambini e delle donne, degli anziani inermi che non si possono difendere.

I soldati sono considerati solo carne da cannone destinati ad immolarsi o perché costretti o nel nome di un nazionalismo cieco, di un eroismo inutile se fine a se stesso. L’arte non deve chiudersi nella torre del silenzio rappresentata in un quadro di Giorgio De Chirico del 1932: essa deve affiancarsi inevitabilmente ad un’azione politica a sostegno dei diritti umani fra cui quello fondamentale è il diritto alla vita e inserirsi in una prassi di trasformazione della realtà umana che tenga conto della dimensione irrazionale. Rivendicare, nel contesto attuale che vede la recrudescenza di conflitti armati, e rappresentare artisticamente i valori del pacifismo può avere il significato di…

L’articolo prosegue su Left del 13 maggio 2022 

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