Gli ultimi dati forniti dall’Istat indicano che la povertà in Italia è sensibilmente cresciuta negli ultimi dieci anni, con un picco drammatico a partire dal 2020. Nello stesso decennio, la ricchezza finanziaria ha raggiunto i 5.256 miliardi di euro, con un incremento di oltre 1.700 miliardi. Si tratta di una ricchezza fortemente concentrata che si è spostata, durante il decennio, dai titoli di Stato all’acquisto di azioni e di altri prodotti finanziari in larghissima misura esteri. Ora, con questi numeri davanti, ho provato a leggere i punti contenuti nei programmi dei principali partiti italiani e, con notevole sgomento, ho trovato misure di cosmesi nel migliore dei casi e nel peggiore – dal mio punto di vista – destinate ad approfondire le disuguaglianze.
Non si parla di imposizione sulle rendite finanziarie, anzi si ipotizzano regimi più favorevoli, in realtà senza grandi differenze tra i principali partiti, non si immaginano forme di incentivazione vera all’acquisto di titoli di Stato da parte dei piccoli risparmiatori italiani, che potrebbero garantire una più solida tenuta dello Stato sociale. Manca peraltro qualsiasi riflessione sulla natura degli acquisti finanziari da parte dei fondi di previdenza complementare ed anzi si auspica una generalizzata riduzione dell’imposizione sui capital gain. Mi sarei aspettato al contrario una serie di proposte che, partendo dalla marcata distanza tra povertà diffusa e ricchezza finanziaria cresciuta e polarizzata, provassero a ridurla; invece non mi pare affatto che un simile sforzo emerga e gran parte delle proposte si traducono in bonus e sussidi di brevissimo respiro che saranno cancellati dall’inflazione.
Il sistema fiscale italiano ha una base imponibile talmente ridotta da rendere la progressività, principio costituzionale fondamentale, inapplicabile se non a danno dei redditi da lavoro e da pensione. Attualmente, infatti, il sistema fiscale italiano dipende troppo dall’Irpef che è pagata praticamente solo da lavoratori dipendenti e pensionati. L’evoluzione storica delle imposte è molto chiara in tal senso. Nel corso del tempo dall’Irpef, che già non contemplava i redditi da capitale e da fabbricati, sono state escluse numerose fonti di reddito, così come è avvenuto per l’Irap che ha finito per gravare come l’Ipref, di fatto, sugli stessi soggetti, peraltro con aliquote ridotte. Considerazioni analoghe valgono per le addizionali comunali dell’Irpef. Al di fuori dei redditi da lavoro e da pensione sono moltiplicate le cedolari secche e le flat tax e continua la pressoché totale esenzione fiscale per le piattaforme digitali, rispetto alle quali per ottenere un prelievo sarebbe indispensabile agire sui ricavi e non sui profitti. Nel contempo, i redditi da lavoro e da pensione sono penalizzati sul versante della spesa sociale perché l’applicazione di una progressività distorta fa sì che paghino spesso per prestazioni che non ricevono mentre tutte le altre forme di reddito ricevono prestazioni che, in larghissima parte, non pagano.
In estrema sintesi, se non si cambia la base imponibile ampliandola e estendendola finalmente a tutti i redditi e non solo a quelli da lavoro, la progressività è lo strumento per impoverire la platea sociale che oggi regge, ingiustamente, la gran parte della spesa pubblica finanziata con le imposte. Pensare a flat tax in tale contesto è puro egoismo: in Italia, le fasce medio basse della popolazione in termini di reddito già pagano un’aliquota Irpef inferiore al 23%; si stima che quasi il 50% dei contribuenti italiani abbia un’aliquota più bassa, se si considerano deduzione e detrazioni. Ridurre tutte le aliquote Irpef al 23% anche per i plurimilionari significa fare loro un enorme favore, che diventa insostenibile per tutti gli altri nel momento in cui verrà meno, con tale misura, circa un terzo del gettito con cui lo Stato finanzia la scuola, la sanità pubblica e gran parte del Welfare.
È indispensabile, alla luce di ciò, invece una tassazione finanziaria più rilevante che vari, nettamente, a seconda della durata dell’“investimento”. Peraltro sarebbe necessario il divieto assoluto delle vendite allo scoperto come dimostra la recente vicenda dell’acquisto di titoli del debito pubblico italiano da parte di speculatori. Sta circolando infatti la notizia dei fondi hedge, in termini più semplici, speculativi, che scommettono contro il debito italiano. Naturalmente gran parte dei media riportano la notizia legandola alla crisi presente nel nostro Paese dovuta all’“allontanamento” di Mario Draghi e a tutte le nefaste conseguenze generate e generabili dalle elezioni. Colpisce che in pochissimi però si soffermino sull’assurdità di quanto sta accadendo.
Alcuni fondi speculativi americani, come accennato, hanno acquistato “allo scoperto” titoli del debito italiano per circa 40 miliardi di dollari a prezzi decisamente bassi prevedendo un caduta del valore di tali titoli e dunque vincendo la scommessa al ribasso. Ora, in tutto ciò sono evidenti diverse assurdità. Gli acquisti fatti dai fondi hedge sono di fatto delle prenotazioni non pagate – allo scoperto significa questo – di titoli di uno Stato sovrano, fatte solo per lucrare sulle sue difficoltà che proprio quelle scommesse finiscono per determinare, con l’ausilio della stampa e dei media che ne danno ampia notizia. Allora, perché bisogna ritenere legittimo che soggetti dichiaratamente speculativi – i fondi hedge lo scrivono nei loro statuti – possano acquistare, o meglio prenotare, senza soldi veri titoli del debito di un Paese – che sono di fatto soldi della collettività per gli effetti che producono – per trarre giovamento dalle sue difficoltà e persino dal suo default? Perché non è possibile mettere una regola che dica espressamente che non si possono fare le vendite allo scoperto e i fondi hedge non devono occuparsi dei debiti pubblici, così come dell’energia, del grano e delle commodities?
Servono poi misure, possibili anche con la normativa nazionale, per ridurre il numero dei soggetti che interagiscono nelle transazioni finanziarie rispetto alle dinamiche dello scambio reale. In altre parole, un freno ai derivati che oggi sono il vero motore dell’inflazione energetica. Per questo occorre una chiara ridefinizione, in sede normativa, degli operatori bancari e finanziari. Occorre affrontare, parimenti, il tema dell’Iva sui beni di lusso così come non è rinviabile una vera rimodulazione dell’imposta di successione. Serve poi una rimodulazione del metodo tariffario; non è possibile che l’Autorità di regolazione per energia reti e ambiente – l’Arera – usi il metodo “giornaliero” che spinge l’inflazione e che l’attuale sistema della tutela non funzioni ed anzi sia peggiore di quello del mercato libero. Non si può neppure continuare a tenere totalmente legati i prezzi dell’energia all’ingrosso agli hub finanziari e a costruire la filiera dei prezzi dell’energia su quello del gas. In estrema sintesi, occorre una grande riforma fiscale che abbassi la pressione sul lavoro in maniera significativa e l’aumenti sulle rendite.
* L’autore: Alessandro Volpi è docente di Storia contemporanea, di Storia del movimento operaio e sindacale e di Storia sociale presso il Dipartimento di Scienze politiche dell’Università di Pisa. È autore di numerose pubblicazioni e articoli sulle tematiche della storia economica e dell’economia
In foto: il dito medio di Cattelan con lo smalto rosa in occasione della Giornata internazionale della donna. Milano, 8 marzo 2021