Zan zindaghi azadi: le tre parole rosso fuoco sono dello stesso colore dello smalto della mano che sostiene il cartello in cui sono scritte. È uno dei principali slogan delle proteste che in questi giorni stanno attraversando l’Iran e le piazze solidali di tutto il mondo. Donna, vita, libertà. Tornano alla memoria le immagini delle rivoluzionarie curde che da anni cantano il corrispettivo in curdo, jin jiyan azadi nella loro lotta per la libertà. Il 13 settembre Mahsa Jina Amini è stata vittima degli abusi della polizia morale iraniana per non portare “correttamente” l’hijab, obbligatorio nei luoghi pubblici in Iran. È stata arrestata e picchiata. Fino alla morte, il 16 settembre. Le sue origini curde vengono onorate con questo coro, che al tempo stesso reclama l’urgenza di ribellione del popolo iraniano contro le repressioni quotidiane delle autorità in Iran.
«L’atroce assassinio di Mahsa Jina Amini per mano degli agenti della polizia morale è l’emblema di 44 anni di aggressione sistematica e di tirannia, che ha garantito la sopravvivenza del sistema attuale imponendo un clima di terrore nella società» si legge nel volantino che viene distribuito davanti all’Ambasciata della Repubblica Islamica dell’Iran a Roma, il 23 settembre, in occasione di una mobilitazione in solidarietà alle proteste in Iran che si è tenuta in contemporanea in varie piazze d’Italia e del mondo. È una lettera aperta delle studentesse e studenti del Politecnico di Teheran. Mentre qualche ragazza distribuisce questo e altri volantini, una mano si alza poco lontano dal cartello con la scritta “donna, vita e libertà”. L’indice e il medio formano una “V” di vittoria. Le voci dei manifestanti, membri della diaspora iraniana e non solo, sovrastano il rumore delle macchine del viale vicino. Tra i tanti, uno degli slogan attacca Ali Khamenei, Guida suprema dell’Iran (la massima carica amministrativa e religiosa).
Le informazioni giungono a tratti dal Paese, dove l’accesso a internet è limitato dal regime. Le poche notizie che arrivano dimostrano la natura repressiva del governo iraniano. Si cominciano a contare i morti, che giorno dopo giorno aumentano. Gli arresti e le violazioni dei diritti umani sono pratica sistematica di risposta alle proteste. Abbiamo parlato della situazione con Riccardo Noury, portavoce di Amnesty Italia, cercando di capire cosa stia avvenendo in Iran e quali sviluppi ci si possa aspettare.
Il 16 settembre è arrivata la notizia della morte di Mahsa Amini e subito sono iniziate le proteste che si sono velocemente diffuse in tutto il Paese. Che natura hanno queste proteste?
In Iran ciclicamente ci sono proteste di massa, nel 2009, 2017, 2019 e adesso 2022, scatenate da diversi fattori. L’obbligo di indossare il velo negli spazi pubblici è una norma che esiste da 44 anni, quando è stata istituita la Repubblica islamica. Già nel 2019 si era diffusa una campagna virale che consisteva nel condividere sulle piattaforme social dei video di donne che si toglievano il velo in luoghi importanti delle città. Questa campagna ha prodotto decine e decine di arresti di attiviste accusate e condannate per reato di prostituzione o induzione alla prostituzione. Quest’anno la scintilla non è stata neanche la storia di un’attivista, ma una vicenda vergognosa di un capello fuori posto, che avrebbe spinto la polizia morale a intervenire con la detenzione della 22enne Mahsa Amini, torturandola e uccidendola. Parliamo di una vittima che non è un’attivista, che potrebbe essere chiunque, una vittima casuale: le persone scese in piazza si identificano con lei. Inoltre bisogna ricordare che già il 12 luglio di quest’anno erano state introdotte norme restrittive sul velo e che hanno dato alla polizia morale un motivo per intensificare l’osservazione e il pedinamento in strada, punendo anche con frustate, con richiami e con arresti e pestaggi. Sono proteste contro il regime, contro la sua interpretazione radicale dell’islam, contro la discriminazione di genere strutturale nelle poliche della Repubblica islamica. Le persone in piazza non pongono un problema di religione, ma criticano un’interpretazione retrograda di essa.
Quali sviluppi possiamo aspettarci?
In passato in Iran, quando i movimenti di piazza sono stati lasciati soli o strumentalizzati per qualche ragione politica diversa da quella dei diritti umani, ha vinto la repressione. Ad oggi (27 settembre, ndr) il numero dei morti è di diverse decine, probabilmente oltre 70. Si contano centinaia e centinaia di feriti, molti dei quali non vanno in ospedale perché temono di essere arrestati. Ci sono stati oltre 700 arresti, tra cui anche giornalisti. La guardia rivoluzionaria, i basiji (una forza paramilitare), e gli agenti in borghese si aggirano in motocicletta con una persona alla guida e un’altra con il fucile pronta a sparare. Una novità è l’uso di determinate munizioni come i pallini di metallo che sono vietati a livello internazionale. Se non uccidono, producono ferite terribili. C’è un’ammissione parziale da parte delle autorità iraniane sul numero di vittime, però il loro dato è minore di quello reale. Inoltre si attribuisce la responsabilità della mobilitazione a cosiddetti nemici della Repubblica islamica, dando la solita narrazione ufficiale per cui sarebbero proteste dirette dall’esterno e in particolare dagli Stati Uniti, ignorando che sono più di quattro decenni che la popolazione è stanca di privazioni della libertà e di norme patriarcali, misogine e discriminatorie oltre che di una situazione economica sempre più difficile. Quindi la preoccupazione è che le autorità proseguano in quest’azione repressiva e noi, comunità internazionale, rischiamo di saperne sempre meno perché parte delle piattaforme social e internet sono già da ora bloccate.
Quali sono i fattori che influiranno negli sviluppi delle proteste?
Ci sono più questioni da cui dipende l’evoluzione delle prossime settimane. Intanto, la dimensione e la portata delle proteste, che per ora proseguono e sono sempre più numerose come partecipazione. Ci sono tanti giovani, essendo l’Iran un Paese giovane, ma le età sono comunque varie. Vale la pena sottolineare che tanti uomini scendono in piazza accanto alle loro mogli, figlie e sorelle. Un altro fattore è l’appoggio dato ai manifestanti da personalità molto popolari. Il calcio è popolarissimo in Iran e calciatori molto noti nel Paese hanno preso posizione a favore della mobilitazione. Bisogna poi capire se quelle voci all’interno del sistema sul frangente riformista (quello legato all’ex presidente Khatami), che chiedono l’abolizione della polizia morale e l’abrogazione delle leggi sul velo, abbiano la forza per portare avanti questa richiesta politica e se questa verrà accolta o meno.
Quali azioni sta intraprendendo Amnesty e con quale metodologia state registrando le violazioni dei diritti umani?
Abbiamo messo a disposizione un numero che può essere raggiunto attraverso messaggi sulle varie piattaforme social in cui chiediamo di ricevere video, testimonianze e altro ancora, chiaramente garantendo la sicurezza di chi ci contatta. Abbiamo inoltre promosso un appello mondiale che si rivolge al presidente Raisi chiedendogli di cessare la repressione. A ciò si accompagna la richiesta agli Stati membri del Consiglio Onu dei Diritti umani (la cui sessione è in corso a Ginevra) di istituire un meccanismo indipendente di indagine internazionale. Infatti non crediamo alla dichiarazione del presidente Raisi secondo la quale ci sarà un’indagine. Non ci crediamo e non sarà così. C’è grande attenzione e tanta solidarietà sia online sia in piazza, in Italia come altrove. Le persone in Iran non devono essere lasciate sole. L’attenzione internazionale deve rimanere alta.
Come dovrebbe comportarsi la comunità internazionale?
Gli Stati devono pretendere dall’Iran che rispetti il diritto di protesta pacifica, che sospenda immediatamente questa repressione e indaghi sulle morti che ci sono state. Questa richiesta è doverosa, però resta la necessità di un’indagine internazionale.
Il fatto che Mahsa fosse curda influisce in qualche modo nelle proteste e nella reazione delle autorità ad esse?
Direi che una relazione c’è: storicamente il governo centrale ha avuto un approccio molto duro o punitivo nei confronti delle minoranze etniche e religiose e questo è confermato dal fatto che il numero maggiore di vittime di questi giorni si conti nelle province a maggioranza curda. Per la popolazione il fatto che Mahsa fosse curda non cambia, la percepiscono come una di loro.
Questa vicenda potrebbe alimentare ulteriori discriminazioni verso le minoranze?
Può essere, anche perché è già stato così in altre situazioni. Penso all’uso della pena di morte che quest’anno sta registrando un record. Si sono verificate già 415 impiccagioni e non è neanche finito il nono mese dell’anno. Se si divide per gruppo etnico di appartenenza il numero delle persone messe a morte, si nota che per esempio i balouchi, che sono il 5% della popolazione, hanno una percentuale altissima tra i condannati. Lo stesso può riguardare il rischio di discriminazione contro i curdi o contro la minoranza araba. La rivolta in sé non mi sembra che abbia una prospettiva etnica particolare, essendo contro l’obbligo del velo.
Pensa che le proteste avranno un impatto nella regione e negli Stati delle zone limitrofe?
Può essere. Ogni movimento di protesta a partire dal Libano nella prima metà del primo decennio di questo secolo ha avuto un effetto galvanizzante nella regione. Ed è quello che i regimi di quella zona temono ora. Sicuramente queste proteste non li lasciano indifferenti perché quando si scende in piazza in uno Stato prendono coraggio anche i movimenti per i diritti umani negli Stati confinanti.
* In foto, un momento di una protesta in solidarietà a chi è sceso in piazza a Teheran dopo la morte di Mahsa Jina Amini, Istanbul, 20 settembre 2022