Giuseppe Aragno è uno storico che concepisce il suo mestiere come una continuazione più alta e scientificamente fondata della politica. Politica, beninteso, quale forma di impegno civile, lettura radicale del mondo presente e volontà di cambiarlo. Perciò i suoi temi sono storie dell’antifascismo (Antifascismo e potere. Storia di storie, Bastogi, 2012) o la biografia di storici politicamente impegnati (la cura di Scritti di storia e politica di Gaetano Arfé, Istituto Italiano di Studi Filosofici, 2005) o la riscrittura di pagine controverse della nostra storia novecentesca (Le quattro giornate di Napoli. Storia di antifascisti, Intra Moenia, 2017.) che smonta la vulgata di una rivolta plebea di quella grande pagina del riscatto meridionale, svelando, con circostanziata documentazione, la progettualità e l’organizzazione politica che stava dietro all’insurrezione armata dei napoletani. Ma, come spesso accade a tanti studiosi, di recente ha pubblicato un singolare libretto, Parole d’uomini e sassi, Valtrendeditore, s.l. 2021, che costituisce a mio avviso una continuazione letteraria della sua vocazione e progettualità politica.

E nello stesso ambito si colloca il racconto, Disarmato, in cui l’autore parla in prima persona di una vicenda drammatica da cui egli stesso viene sfiorato, durante i cosiddetti Anni di piombo. Al centro c’è la vicenda di Luigi Capone, un giovane militante che egli aveva frequentato come compagno di lotta e di cui aveva perso le tracce, ucciso dai carabinieri in uno scontro a fuoco mentre viaggiava in auto. La tragedia di questa morte oscura è vissuta e ricostruita dall’interno delle mura domestiche come una notizia sconvolgente che si mescola a un’altra tragedia familiare: quella che riguarda la vecchia madre, precipitata nella follia. Lei sembra partecipare con lucidità alla vicenda dolorosa che coinvolge il figlio, in realtà teme per la sua vita a causa dei fantasmi inquietanti che affollano la sua mente. L’autore ne disegna un quadro rapido e tagliente, dopo che la notizia dell’uccisione di Capone entra in casa: «Dritta, per quanto potesse drizzarsi quella sua figurina smilza e nervosa, ferma, senza quel tremito feroce che da mesi non le dava più requie, mi si parò davanti e tutto ciò che aveva di vivo si concentrò negli occhi azzurri che erano stati di una bellezza struggente. Era uno sguardo tagliente, che faceva paura».
In Parole d’uomini e sassi, che è anche il titolo di un raccontino, si ritrovano poi altre storie che hanno al centro il lavoro, la solidarietà, come nel toccante Ahmed, il marocchino, storia di emigrazione e di lavoro in miniera, nelle miniere di carbone del Belgio, segnata dalla morte del giovane Ahmed, che paga con la vita un suo gesto di solidarietà. Ma si trovano anche pagine che non raccontano vicende, e piuttosto intrecciano riflessioni all’apparenza esterne al nucleo ispiratore che orienta tutte le storie del libro. È il caso di Dillo tu, che sai tutto, Tiresia, nel quale il protagonista è Narciso, il personaggio del mito. Costui comprende, ammirandosi nello specchio, una verità dolorosa: oltre sé stesso e il limite dello specchio, c’è l’amore e quindi anche il disordine della vera vita.«Narciso non è un vanitoso, come spesso crediamo: qualcuno l’ha ferito quando è venuto al mondo ed ha smesso di volare. Il mondo di Narciso è Narciso: forma e sostanza di sé stesso, territorio e confine d’una realtà contenuta in uno specchio. Tiresia lo ha predetto: se l’amore prenderà per mano Narciso e lo condurrà nel mondo dal quale è fuggito, quello sarà l’ultimo suo viaggio».
Dunque la vita, l’ambito tumultuoso dove nasce il miracolo dell’amore, l’energia della passione e della lotta, è anche il luogo della sofferenza, dello sfruttamento e dell’ingiustizia. Anche nel mito Aragno fa rivivere i temi che percorrono i suoi racconti, i quali sembrano nati dall’urgenza di dare riscatto e requie a una sofferenza interiore: quella di un combattente coperto di ferite, che reca sulle spalle un grande peso di memorie e di struggimenti e avverte il bisogno di comunicarli agli altri, di affidarli alla parola scritta, perché non vadano dispersi e ne rimanga traccia.





