Il 13 settembre la British society for Middle Eastern studies (Brismes) e lo European legal support center (Elcs), organizzazione che offre consulenze legali gratuite e assistenza a individui e gruppi impegnati nella difesa dei diritti dei palestinesi in Europa e nel Regno Unito, hanno reso pubblico un rapporto dedicato alla libertà accademica e libertà di parola nelle università britanniche. Nel documento mettono in evidenza quello che chiamano l’adverse impact della definizione di antisemitismo della International holocaust remembrance alliance (Ihra) su questi diritti fondamentali. La definizione, queste le conclusioni dell’analisi, viene utilizzata sia da singoli individui sia da gruppi di pressione interni ed esterni alle università come un’arma per silenziare, censurare, frenare sul nascere discussioni che partano da posizioni critiche del sionismo e di Israele. Per questo costituirebbe una vera e propria minaccia alla missione di ricerca e formazione delle istituzioni universitarie e, impedendo un dibattito libero sulla situazione in Israele/Palestina, finirebbe per confondere le acque e ostacolare anche la lotta all’antisemitismo. L’accusa è grave, ma non nuova. Proviamo a fare un po’ di chiarezza sui termini della questione.
La definizione messa a punto dall’Ihra nel 2016 è formata da un testo base che descrive l’antisemitismo come «una certa percezione degli ebrei, che può essere espressa come odio verso gli ebrei» (traduzione mia). Nella sua vaghezza, il testo intende aiutare a isolare aggressioni verbali e fisiche dirette a ebrei e motivate dal solo fatto che i bersagli sono – o sono ritenuti – ebraici. L’operazione non è sempre semplice, e si complica in modo evidente quando nel quadro si inseriscono il sionismo e Israele.
Tornando alla definizione Ihra, il testo base è seguito da 11 esempi, di cui 7 si occupano proprio di Israele. È antisemita – ci viene detto – negare al popolo ebraico il diritto all’autodeterminazione, ad esempio sostenendo che lo Stato di Israele persegue politiche ispirate a principi razzisti. Ugualmente antisemita sarebbe applicare a Israele uno standard più severo rispetto a quello usato nel giudicare le azioni di altre democrazie. All’apparenza si tratta di frasi di buon senso, ma in realtà finiscono per legittimare l’attuale configurazione di Israele come unico possibile sbocco del diritto all’autodeterminazione ebraica e per etichettare come antisemita uno spettro molto ampio di critiche. Sulla base di questi esempi sono stati accusati di antisemitismo i sostenitori del movimento Boycott, divestment, sanctions (Bds), la relatrice speciale dell’Onu per i Territori palestinesi occupati Francesca Albanese, Amnesty International per avere accusato Israele di aver instaurato un regime di apartheid, e la lista sarebbe lunga. (Quasi) ogni difesa dei diritti dei palestinesi rischia di incorrere in un’accusa di antisemitismo.
La definizione Ihra è stata adottata da 43 Paesi compresa l’Italia (seduta del Consiglio dei ministri del 17 gennaio 2020) ed è sostenuta dal Parlamento europeo. La sua potenziale adozione da parte dell’Onu è oggetto di un acceso dibattito. In Italia la definizione è il perno della Strategia nazionale di lotta all’antisemitismo elaborata dal gruppo di lavoro presieduto dall’allora coordinatrice nazionale Milena Santerini – poi sostituita dal prefetto Giuseppe Pecoraro – e delle Linee guida sul contrasto all’antisemitismo nella scuola (2021) del ministero dell’Istruzione.
Il governo britannico ha adottato ufficialmente la definizione nel dicembre 2016 e nell’ottobre 2020 l’allora Education secretary Gavin Williamson ha ingiunto alle università di fare lo stesso entro il Natale di quell’anno pena la minaccia di un taglio ai finanziamenti. La posizione di Williamson ha generato immediate proteste da parte di specialisti di Jewish e Middle Eastern studies ma anche da parte di giuristi, che hanno denunciato l’incompatibilità fra l’adozione della definizione Ihra, la Dichiarazione universale dei diritti umani e lo Human rights act britannico (lettera pubblicata sul Guardian del 7 gennaio 2021).
La definizione non è giuridicamente vincolante – non ha quindi forza di legge -, ma questo status giuridico indeterminato non vuol dire che non sia influente.
Queste premesse sono fondamentali per capire meglio il rapporto Brismes/Elcs e le sue conclusioni. Il report analizza 40 casi denunciati a Elcs nel periodo compreso fra 2017 e 2022. Di questi, 24 riguardano docenti, 9 studenti e 7 associazioni studentesche. A parte due casi in cui non è stata ancora raggiunta una decisione definitiva, le accuse di antisemitismo sono state ritenute prive di fondamento al termine dei procedimenti disciplinari. Premesso che l’antisemitismo è un problema reale, grave e presente nel Regno Unito (così come in Italia), e che è urgente individuare modalità di contrasto efficaci, cosa ci insegna, che problemi ci segnala questo testo?
Punterei il dito su almeno due aspetti. Da un lato abbiamo la pretestuosità delle accuse portate nei casi analizzati. I procedimenti disciplinari non hanno portato a sanzioni, nonostante le accuse fossero state prese molto seriamente dalle istituzioni coinvolte. Dall’altro, il rapporto rileva – anche attraverso una serie di interviste – come il clima creato dalle accuse di antisemitismo abbia compromesso seriamente la possibilità di affrontare, in sede di ricerca ma forse ancor più di didattica, una serie di temi scomodi come la natura delle azioni israeliane nei territori occupati, la legittimità dell’occupazione, i diritti (negati) ai palestinesi e via dicendo. Questo clima non favorisce la costruzione di un rapporto di fiducia fra colleghi e fra docenti e studenti, ed esiste un rischio molto concreto di ricorso all’autocensura preventiva. Perché emergano ostacoli alla libertà di parola e di insegnamento non occorre che si verifichino casi eclatanti di licenziamenti o sanzioni (che peraltro sono avvenuti negli Usa); basta che si sia indirettamente costretti a evitare determinati argomenti, mentre la missione delle università dovrebbe essere quella di incoraggiare il pensiero critico e offrire strumenti complessi per affrontare argomenti divisivi. Proprio per questo lo stesso estensore della definizione Ihra, Kenneth Stern, si è a più riprese espresso contro l’adozione del testo da parte delle università.
Brismes e Elcs raccomandano che il governo britannico ritiri la sua ingiunzione ad adottare la definizione, e che le università britanniche non adottino il testo o non lo utilizzino se già adottato.
Personalmente concordo in pieno con queste conclusioni e con la lettura proposta dal rapporto, anche sulla base della mia esperienza personale. Fra il 2014 e il 2020 ho insegnato allo University college London e ho assistito – e partecipato – al dibattito suscitato dall’adozione della definizione Ihra da parte dell’università nel 2019. Quello che ho visto e ascoltato conferma l’uso fazioso che può essere fatto di questo strumento, e la sua inefficacia nel combattere gli episodi – purtroppo presenti – di antisemitismo. Nel caso di Ucl l’Academic board ha finito con il raccomandare non la rinuncia alla definizione Ihra ma l’adozione contestuale di altre definizioni per certi versi contrapposte, fra cui la Jerusalem declaration on antisemitism (Jda), da utilizzare congiuntamente allo scopo di stimolare il dibattito. Il Council, organismo direttivo dell’università composto prevalentemente da non accademici, ha ritenuto di non seguire questa raccomandazione e di mantenere il testo Ihra (marzo 2023).
La pubblicazione del rapporto Brismes/Elcs rende evidente l’urgenza di un confronto sulla situazione italiana, non solo nelle università ma anche nel mondo della scuola.
L’autrice: Carlotta Ferrara Degli Uberti è docente dell’Università di Pisa
Nella foto: Un checkpoint nei Territori occupati
Nota di redazione: questo articolo è pubblicato anche ne La strage dei bambini, raccolta di articoli pubblicati su Left. L’autrice Carlotta Ferrara Degli Uberti ci ha comunicato la sua non condivisione e presa di distanza dal progetto, riguardo al titolo, alla copertina che riporta disegnata una bandiera di Gaza e all’impianto «politico» del fascicolo