«Questo album è dedicato alla gioventù che arricchirà il genere umano. Alla gioventù che è costantemente consapevole del tumulto in cui si trova il mondo e che sta cercando di correggere tutto ciò che è sbagliato, sia nella musica che nel linguaggio, o in qualsiasi altro modo lavorando positivamente».
Con questo formidabile incipit a firma di Woody Shaw si aprivano le note di copertina di Blackstone legacy (Contemporary Records – 2LP – 1971/2023), un album leggendario la cui ristampa originale è tornata finalmente disponibile su doppio vinile. L’importanza del disco è ben nota a tutti gli appassionati per diversi ed importanti motivi.
Innanzitutto, si tratta del disco di esordio come leader di Woody Shaw (1944 – 1989), un lavoro di grande spessore perfettamente calato nel momento storico e culturale nel quale fu concepito. Siamo nel 1970 in America, all’acme della lotta dei movimenti per i diritti civili, contro la segregazione razziale e contro la guerra nel Vietnam.
Il mondo del Jazz per tutti gli anni Sessanta era stato attraversato dal vento iconoclasta e rivoluzionario del Free Jazz che, al di là del verbo più radicale dei propugnatori della “New Thing” – Ornette Coleman, Albert Ayler, Cecil Taylor e nell’ultimo scorcio della sua carriera anche John Coltrane – le nuove forme sonore avevano più o meno direttamente influenzato tutta una schiera di musicisti che, partendo dal linguaggio più canonico dell’Hard Bop, sviluppato nella nuova direzione “modale”, avevano spinto in avanti la propria ricerca verso forme espressive più libere e aperte, mantenendo salde le proprie radici afro-americane all’interno di un disegno ritmico-armonico comunque riconoscibile.
Questa avventurosa esplorazione, a partire dalla metà degli anni Sessanta, coinvolse figure di primo piano come quelle di Jackie McLean, Grachan Moncur, Bobby Hutcherson, Andrew Hill, e dello stesso Miles Davis che in quegli anni mise a punto il suo secondo “quintetto perfetto” con Wayne Shorter, Herbie Hancock, Ron Carter e Tony Williams.
In questo scenario si inserì perfettamente il giovanissimo Woody Shaw, che già nel 1963 – appena diciannovenne – aveva avuto l’opportunità di seguire in tour in Europa il grande sassofonista e polistrumentista Eric Dolphy, e poi, tornato in America dopo la tragica e improvvisa scomparsa di Dolphy, ebbe modo di partecipare da co-protagonista ad alcuni dei dischi-manifesto di quell’epopea d’avanguardia, basta ricordare tra i tanti Unity di Larry Young, Passing Ships di Andrew Hill, The Cape Verdean Blues di Horace Silver, Demon’s Dance di Jackie McLean.
Fu proprio Miles Davis, influenzato dalla giovane ed esuberante moglie Betty Mabry (meglio nota come Betty Davis) a rivolgersi per primo verso le nuove forme del rock e del funk che imperversava in quegli anni con Jimi Hendrix, i Cream e Sly and The Family Stone.
Dopo i primi esperimenti con l’inserimento di alcuni strumenti elettronici nell’album In a Silent Way del 1968, l’anno dopo Miles ruppe gli indugi sfornando un doppio album assolutamente rivoluzionario come Bitches Brew che, ancora oggi, a distanza di quasi cinquantacinque anni dalla pubblicazione, continua ad alimentare accese discussioni tra gli appassionati di Jazz e non solo.
L’utilizzo reiterato di vamp (figura musicale che si ripete ndr) e ritmi funk, la presenza simultanea di due o tre batterie e percussioni, due contrabbassi, uno elettrico ed uno acustico, due o tre tastiere elettroniche, la chitarra elettrica di John McLaughlin, i fiati e la tromba di Davis che, allontanandosi dalla rigorosa eleganza del suo stile, disegna linee spezzate, grappoli di note ora urlate ora soffocate, in una lancinante sequenza di sussurri e grida. La perfetta rappresentazione di un uomo che mette a nudo la propria solitudine scontrandosi con il sinistro clangore di una metropoli che lo assedia.
A prima vista molti sono i punti di contatto che legano i due album pubblicati a meno di un anno di distanza l’uno dall’altro. Si tratta di due doppi album di due trombettisti, che seppur di generazioni diverse, si sono avvicinati da direzioni convergenti al nuovo verbo “elettrico”. Inoltre sono diversi i musicisti hanno partecipato alla realizzazione di entrambi i lavori. Il batterista Lenny White, il polistrumentista e clarinettista Bennie Maupin, il contrabbassista Clint Houston avevano suonato tutti in Bitches Brew, dal canto suo Ron Carter era stato fino a poco tempo prima colonna portante del famoso quintetto di Miles, mentre il sassofonista Gary Bartz si era da poco aggregato al gruppo di Davis, partecipando nell’agosto del 1970 alla storica esibizione al festival dell’Isola di Wight.
Quindi ben cinque dei sette componenti del gruppo di Blackstone legacy avevano avuto legami diretti con il divino Miles.
Se però andiamo ad analizzare più profondamente la musica appaiono delle sostanziali differenze stilistiche tra i due lavori.
Intanto, al di là dell’utilizzo alternato o in contemporanea dei due contrabbassi, l’elettrificazione del gruppo di Shaw appare assai più sobria e sostanzialmente limitata al solo inserimento del piano elettrico da parte di George Cables.
Resta la novità dell’utilizzo ricorrente di vamp e di ritmi funky che però non vanno a snaturare l’atmosfera generale del disco che resta ancorata a sapori più genuinamente jazzistici. Un lavoro che, più che strizzare l’occhio al rock imperante, vira spesso verso atmosfere più vicine al Free Jazz, soprattutto nell’originalissimo approccio alla tromba di Woody Shaw, che per sua stessa ammissione, stava cercando di innestare sul suo stile Hard Bop, l’approccio improvvisativo “verticale” di John Coltrane, trasponendo sulla tromba le linee melodiche dei sassofonisti contemporanei. Lo dimostra brillantemente il lungo brano di apertura che dà il titolo all’album, nel quale, dopo l’esposizione guizzante del tema, Woody Shaw apre le danze con un furioso assolo, seguito a ruota dai sodali Gary Bartz al sax contralto e soprano e da Benny Maupin al clarinetto basso con i quali instaura un’infuocato contrappunto dalle serpeggianti linee melodiche che trascinano l’ascoltatore in territori contigui al free jazz.
Lungo tutti i sedici minuti della performance il piano elettrico di George Cables crea per contrasto un’atmosfera sospesa, onirica, quasi ad evocare il suono misterioso di un vibrafono. La sezione ritmica con il possente contrabbasso acustico di Clint Houston e la metronomica batteria di Lenny White mantiene la rotta con polso sicuro, permettendo ai solisti le più spericolate improvvisazioni senza correre il rischio di perdere la bussola.
“Think of Me” si sviluppa su un mid-tempo tipicamente modale dal sapore vagamente latino. Qui, in un’atmosfera più rilassata, le capacità espressive della tromba risaltano al massimo, mettendo in campo l’intera tavolozza di fraseggi e di colori che Woody riesce mirabilmente a ricreare sullo strumento.
I due brani centrali del disco “Lost and Found” e “New World” portano invece la firma di George Cables. “Boo-Ann’s Grand” è dichiaratamente un affettuoso omaggio alla moglie di Woody – Betty Ann Shaw – e per traslato al “sentire” alla fantasia e all’intuito di tutto l’universo femminile – laddove gli improvvisi cambi di ritmo e di atmosfera della musica sembrano alludere all’inafferrabile mutevolezza del carattere femminile.
“A Deed for Dolphy” è invece dedicato al suo maestro, il grande Eric Dolphy. Prendiamo a prestito le parole dell’artista riportate nelle note di copertina: «Ho cercato di raffigurare Eric come se ci stesse osservando proprio adesso. Ho sentito che lui deve essere in una terra di pace, un posto dove gli uccelli cantano. Quando incontrai Eric nel 1963, lui cambiò totalmente la mia concezione. Io suonavo un certo tipo di Hard Bop, ed Eric mi insegnò ad essere libero e liricamente aperto, ad essere me stesso nella mia musica. Io credo che tutti i grandi maestri – Trane, Bird – continuano a guardarci».
Si tratta per il ventiseienne Woody Shaw di una profonda e consapevole assunzione di responsabilità: lui sa ed è convinto che tutta la storia del Jazz lo guarda dall’alto e, conscio del proprio talento, sente il peso e l’obbligo morale di essere all’altezza della tradizione, della storia e della cultura del popolo afroamericano.
Nelle medesime meravigliose note di copertina ribadisce:
«Questo album è dedicato alla libertà della gente di colore in tutto il mondo. Ed è dedicato alla gente che qui vive nei ghetti. La “pietra” che compare nel titolo è un’immagine di resistenza. Io sono cresciuto in un ghetto – case cadenti, topi e scarafaggi, corridoi puzzolenti. Io ho visto tutto questo e ho visto gente superare tutto questo. Questa musica ha il significato di essere una luce di speranza, un suono di resistenza e di attraversamento. È fatta per il ghetto. Noi stiamo cercando di esprimere cosa sta accadendo oggi nel mondo, nella maniera in cui noi – una nuova generazione di giovani musicisti – lo sentiamo.
Mi riferisco alle differenti tensioni nel mondo, la ridicola guerra in Vietnam, all’oppressione della gente povera in questa nazione che invece ha tante ricchezze. I ragazzi durante queste sessions discutono in continuazione di questi argomenti, ma stiamo anche cercando di raggiungere uno stato di illuminazione spirituale nel quale essere costantemente consapevoli di ciò che sta accadendo, nell’ottica però di reagire in maniera positiva.
La musica di questo album, come vedi, esprime la resistenza-convinzione che noi riusciremo a superare tutto questo».
Parole forti, drammaticamente e perfettamente attuali, come la musica che le esprime.
WOODY SHAW – BLACKSTONE LEGACY (Contemporary Records – 2LP – 1971/2023)
«C’è un grande trombettista in giro, ed è in grado di suonare differente da tutti gli altri» (Miles Davis su Woody Shaw)
Woody Shaw (1944 – 1989) è stato uno dei grandi trombettisti del Jazz moderno, ed è considerato ancora oggi forse l’ultimo autentico innovatore sul suo strumento.
Dopo più di mezzo secolo – grazie all’iniziativa di Craft Recordings and Jazz Dispensary – è tornato finalmente disponibile su doppio vinile la ristampa dell’edizione originale del capolavoro di Woody Shaw – Blackstone legacy, inciso nel dicembre del 1970 e pubblicato l’anno successivo. Occorre infatti ricordare che nell’edizione su CD del 1999, due brani del disco furono rieditati con dei minimi tagli allo scopo di riportare la lunghezza dell’album nel limite degli ottanta minuti di un singolo CD. Una scelta senz’altro discutibile, che accresce ulteriormente il valore filologico della nuova ristampa su vinile, che riporta altresì le fondamentali note di copertina originali a firma di Nat Hentoff.
La grafica, nel formato del doppio album, valorizza la suggestiva foto di copertina che rimanda poeticamente all’Africa, e ritrae una lunga fila di donne di etnia Bari che camminano sui lastroni di pietra scura in un altipiano nel Sud Sudan.