«Che cosa resterà di me, di tutte le impressioni che ho avuto in questa vita?». Bella, la protagonista dell’ultimo film Poor things di Yorgos Lanthimos (Γιώργος Λάνθιμος, accento sull’alfa), grazie alla Filosofia ri-torna viva. Scoprendo che «siamo tutti su una nave e non possiamo fuggire». In pratica, la fisiognomica di Battiato (Mesopotamia, Emi, 1988) incontra il “trascendentalismo” di Ralph Waldo Emerson di Nature (Donzelli). Evidentemente, è vero: «nessun ricordo, nessuna esperienza sopravvive». Del resto, l’inventore del dottor Frankenstein è una giovane donna, Mary Shelley. Il galvanismo con gli archi elettrici sui cadaveri, Lord Byron e Polidori, rientrano nel medesimo alveo di inizio Ottocento.
Il regista nato ad Atene è un uomo assai colto. Probabilmente un genio. Nel gioco dei rimandi ci sguazza. Chi ha chiamato il Cinema “settima arte” aveva la vista lunga. (Ricciotto Canudo, Riflessioni sulla settima arte,1923). Così, Willem Dafoe innesca la staffetta tra maschi. Che fanno discreta tappezzeria. Metafora di una società patriarcale patetica e codarda. Costituita da infinite velleità e implausibili ambizioni. Lo seguono Ramy Youssef, Mark Ruffalo (spettacolare), Christopher Abbott. Si salva appena Jarrod Carmichael, il cinico. Alter ego dell’autore. Il “bambino” che non vuol crescere davanti al dolore del mondo. Londra, Lisbona, Atene, Alessandria d’Egitto, Parigi. Le cartoline sulle quali scrivere: «Io bene!».
Film come Freaks (1923) di Todd Browning, capolavori come Quell’oscuro oggetto del desiderio (1977) di Luis Buñuel, ma anche Frankenstein Junior (1974) di Mel Brooks e Annie Hall (1977) di Allen, fra le possibili(ssime) fonti d’ispirazione. Lo spettatore, se crede, può “shakerare” a suo piacimento.
Gli uomini si credono Pigmalioni. Ma poi sanguinano al primo schiaffo. Si tratta di debolezza “fisiologica”. Le donne, invece, vogliono scoprire il mondo. Non hanno bisogno granché di loro. Nell’ordine compulsivo che avvicina inevitabilmente alla morte, convulso correre senza consapevolezza, c’è il viaggio. La presa di coscienza di ciò che siamo. Delle nostre stesse miserie. L’impotenza del pedone sulla scacchiera. Allora, «spingersi oltre i confini della conoscenza è l’unico modo per vivere». Uno scienziato si illude. Persino di non essere una povera creatura. Le alternative fa(ra)nno saltare il banco sul serio. Infischiandosene della “buona società”. Dove «non si fanno certe cose». La donna che visse due volte del Maestro Hitchcock (Vertigo, 1958) è, dunque, servita. Victoria Blessington diventa la signorina Baxter. Lo switch colore/viraggio seppia completa l’opera. La fotografia di Robbie Ryan sortisce effetti straordinari.
Il Paese delle Meraviglie che appare agli occhi dello spettatore non lascia nulla di intentato. A costo di mostrarsi ridondante, eccessivo, didascalico. Il cavallo finto della carrozza, McCandles novello Gene Wilder, gli occhiali da sole di Coppola e Gary Oldman, l’lnghilterra vittoriana steampunk, la meraviglia degli abiti disegnati da Holly Waddington, i “fish-eye” grandangolari, ogni verosimile distopia a ritroso. (Francis FordCoppola, Bram Stoker’s Dracula, 1992)
Tutto accompagnato alla bisogna. Porto a colazione, cunnilungus socialisti, gabbiani sporcaccioni, maîtresse e bordelli d’antan, clienti monchi, preti alla Richard Chamberlein, amanti succubo possessivi, cani-pollo e generali trasformati in capre. Il linguaggio forbito a braccetto col turpiloquio andante. La dialettica non ha scampo.
Percheé questo lungometraggio in trompe-l’œil magari non sarà un capolavoro. Come sostiene giustamente qualche critico di fama. Però permette di entrare dentro a una dimensione unica. Antica, archetipica, modernissima assieme. Femminismo, libertà, emancipazione. I concetti relegati alla teoria puzzano di stantio. La visionarietà dei grandi cineasti, all’opposto, offre l’opportunità di ribadire diritti e doveri. Mai scontati. «Chi sono io per giacere su un letto di piume mentre dei bambini morti giacciono in un pozzo?». I «furious jumping» (i “furiosi sobbalzi‘) sono soprattutto quelli della mente.
Il Leone d’oro a Venezia, i due Golden Globes a Beverly Hills, 4 Academy Awards e ora il premio Oscar come miglior attrice (a cui si aggiungono i premi per trucco e parrucco, scenografia e costumi) suggeriscono la concatenazione degli eventi. Gli altri la chiamano caso. Borges de L’Aleph no.
Magari l’esistenza «è una fiaba a lieto fine» col Martini cocktail in mano. Gin e cloroformio. Zucchero e violenza. Un ballo portoghese che ricorda il mambo di De Sica con la Loren. Diogene di Sinope che chiede ad Alessandro Magno di togliersi dal sole. La bocca piena di sangue di Fassbinder e Hanna
Shygulla (presente in carne e ossa). Histoire d’O e i cattivi pensieri di Tognazzi. Ricapitolando… «desideri sposarmi o uccidermi?». Ricordando Dino Risi di Pane, amore e…(1955), ma anche Fassbinder, Il matrimonio di Maria Braun (1979) e Pauline Réage, Histoired’O (Bompiani,1954) e Ugo Tognazzi di Cattivi pensieri (1976)
Emma Stone, dinoccolata e sensuale, è saldamente avviata verso la Walk of Fame. L’interpretazione sontuosa e (auto)ironica è già un cult. Somiglia a un gatto che butta giù gli oggetti dal tavolo, mentre ci osserva con distacco appassionato. Il romanzo omonimo di Alastair Gray, Poor Things (SafaràEditore) recuperato dal lontano 1992 e riadattato da Tony McNamara, merita una scorsa ulteriore. E pazienza se gli esseri umani nel fondo dell’animo rimangono bestie feroci. Specie «fottuta» o meno Harry dimentica «che essere vivi è affascinante». La parafrasi scanzonata di “Harry a pezzi” all’amico morto rimane un azzardo ragionato. Forse, l’unico modo di affrontare i giorni che verranno. C’è stato un tempo in cui François Truffaut, con Jeanne Moreau, ha previsto tutto in largo anticipo. Antefatti compresi (Truffaut, La mariéeétaitennoir (1968). «Lei crede di vendicarsi, ma sbaglia: non ci si può vendicare degli uomini. Non si finirebbe mai. Bisognerebbe vendicarsi non solo dei loro delitti, ma anche della loro ignoranza, di quasi tutti i loro pensieri.»
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