Pur in attesa delle conclusioni della magistratura, sembra assodato che il Comune di Venezia sia da anni infestato non da alcune mele marce, ma da un sistema coscientemente costruito al fine di mettere la pubblica amministrazione a servizio dei privati. Concetto, questo, più volte ribadito nella ordinanza della Procura della Repubblica dove si parla di «sistema criminoso [per far] pressione sugli uffici comunali ridotti al servizio del privato» e si accusa l’assessore Renato Boraso di avere «sistematicamente mercificato la propria pubblica funzione svendendola agli interessi privati».
In quanto a Luigi Brugnaro, solito vantarsi di avere rinunciato allo stipendio da sindaco e di lavorare per noi gratuitamente, la Procura cita documenti della Guardia di Finanza che rilevano «un vasto catalogo di anomalie nella gestione amministrativa del comune di Venezia, nelle ripetute frequenti interferenze, commistioni con gli interessi economici delle molte società appartenenti al reticolo facente capo all’imprenditore Brugnaro […] i cui sintomi prodromici si evidenziano nella collocazione al vertice della macchina comunale e di alcune partecipate comunali di dirigenti e amministratori prelevati dalle società private di proprietà di Brugnaro». Oggetto di indagine sono anche le laute sponsorizzazioni garantite da una serie di imprese alla squadra di pallacanestro Reyer, di proprietà del sindaco, perché «chi elargiva contributi alla Reyer aveva poi la strada spianata per avere appalti».
Di fronte a questo quadro devastante, colpisce la sorpresa con la quale molti hanno accolto la notizia dei provvedimenti restrittivi emessi nei confronti di alcuni esponenti dell’amministrazione comunale di Venezia. Una reazione strana se si tiene conto che, da anni, dei fatti di cui si tratta si trova ampia traccia nelle cronache locali, ma anche un segnale preoccupante del radicamento di un sistema di potere che ha trasformato l’amministrazione del bene pubblico in una lotta fra bande che si competono la conquista, la spartizione e la vendita del territorio.
«Tutti sapevano» ha opportunamente sottolineato Felice Casson, due volte candidato sindaco e due volte sconfitto (la prima da Massimo Cacciari e l’altra da Brugnaro), a cui parere «sarebbe il caso di riflettere su come queste persone siano arrivate al governo di Venezia, di riflettere su chi ha politicamente aperto loro la porta».
Se questo è il fulcro della questione, per capire il sistema di cui il Berlusconi della laguna, come è stato definito Brugnaro, non è l’ideatore ma piuttosto un accorto utilizzatore finale, bisognerebbe rileggere con attenzione le vicende veneziane partendo da almeno vent’anni fa.
Nel 2005 (erano da poco iniziati i lavori del Mose e ci si apprestava a costruire il ponte di Calatrava), Alberto Statera scrisse: «In questi giorni tutti, ma proprio tutti, sono sbarcati in laguna: immobiliaristi, palazzinari, architetti, finanzieri di primo e secondo pelo, speculatori, grandi gruppi, piccoli gruppi aggressivi e/o avventurosi per partecipare al business che si chiama opere pubbliche, trasporti, restauri, ristrutturazioni, calcio, scommesse e turismo». Nello stesso periodo l’allora sindaco Cacciari, intervistato da Elisio Trevisan, disse: «È naturale che in questa fase si facciano avanti imprenditori di grosso calibro, io ne vedo due o tre al giorno, Benetton, Caltagirone, Brugnaro e altri di cui per il momento non dico il nome». Ognuno di questi mecenati di se stessi è stato poi ampiamente ricompensato per il suo amore per la città, ad esempio Benetton con il Fontego dei Tedeschi e Caltagirone con lo Stucky Hilton.
In quanto a Brugnaro, con la motivazione che il Comune non aveva risorse per disinquinare i terreni, Cacciari rinunciò alla prelazione dell’area dei Pili, favorendone di fatto l’acquisto da parte dell’accorto imprenditore il quale, però, non intendendo usare soldi suoi per le bonifiche, ha ripetutamente sollecitato l’intervento del Comune, della Regione e del governo a «rivedere i protocolli» e ridurre gli oneri per i privati. Malgrado le promesse che «da sindaco non [avrebbe fatto] mai niente sui Pili», sembra ora che incontrando potenziali acquirenti Brugnaro abbia loro assicurato: «Qui è tutto edificabile, si può fare qualsiasi roba, fino a centro metri [di altezza]!». Le vicende dei Pili, assieme ad altre operazioni delle società del sindaco, sono al vaglio degli investigatori.
Di quello che è stato definito il patto Cacciari-Brugnaro non si hanno prove – in una delle sue ultime esternazioni Cacciari ha detto «fu lui a chiamarmi» -, è innegabile però che molti degli affari di Brugnaro siano stati resi possibili da giunte cosiddette di sinistra, che hanno governato con una visione filosofica sostanzialmente non diversa da quella dell’attuale sindaco, condividendone, anche senza lucrarne illeciti profitti, l’idea che la città, come qualsiasi altra merce, appartenga al mercato e sia a disposizione di chi riesce a impossessarsene.
Il risultato è che si è passati da un sistema in cui le amministrazioni comunali preparavano dei piani e poi, eventualmente, li modificavano sotto la pressione di interessi particolari, a quello attuale che vede gli imprenditori, o sedicenti tali perché i loro guadagni sono esenti da ogni rischio di impresa, offrirsi in prestito alla politica e, una volta scalate le pubbliche istituzioni, programmaticamente asservirle ai propri interessi.
Comune alle due fazioni è anche la tracotante rivendicazione della bontà delle loro scelte e il disprezzo per i cittadini non possidenti e/o non consenzienti. Fin dal 1993, al momento della sua prima elezione Cacciari si disse orgoglioso perché «stiamo stringendo tutta una serie di accordi con i privati […] questi progetti possono essere molto appetibili anche dal punto di vista della rimuneratività» e sono famose le sue invettive contro «la società civile che ti invade ogni mattina con problemi senza senso» ed i cittadini che «sono dei rompiscatole, ti impediscono di governare, ti rompono la palle, sono infanti incapaci di arrangiarsi».
Dal canto suo, Brugnaro, che ai giornalisti che gli pongono domande non gradite risponde “siete lo schifo d’Italia”, ha sempre rivendicato la privatizzazione e la svendita alla città. In più occasioni si è rivolto agli investitori ribadendo «noi come amministrazione siamo a disposizione» e perfino in questi giorni urla «non abbandonerò mai l’idea che i privati sono una risorsa per Venezia».
Mentre in città si moltiplicano le richieste di dimissioni di Brugnaro, come bastasse cambiare sindaco per cambiare sistema, condivisibile è la desolata e condivisibile riflessione di Casson: «Ci vorrebbe un salto etico, ma non è scontato, neanche a sinistra». E purtroppo non è nemmeno scontato che l‘operato della magistratura, ultimo baluardo contro la rapina del bene pubblico, non venga ostacolato dalle riforme che il governo nazionale si appresta a varare per garantire l’impunità di pubblici funzionari e amministratori corrotti e/o fedifraghi, e far sì che il sacco della/e città avvenga in modo formalmente legale, sancendo definitivamente il primato della cultura dell’(af)fare.
Il libro Privati di Venezia
Paola Somma ha insegnato Urbanistica presso lo IUAV di Venezia ed è stata visiting professor all’Università Americana di Beirut. Svolge ricerca indipendente con attenzione ai rapporti tra l’organizzazione fisica e la struttura economica e sociale del territorio. È membro del comitato editoriale della rivista «Open House International». Per Castelvecchi, (collana Antipatrimonio diretta da Maria Pia Guermandi e Tomaso Montanari) ha pubblicato nel 2021, ai tempi della ripartenza dopo la pandemia, Privati di Venezia. La città di tutti per il profitto di pochi in cui ha compiuto un’analisi sui cambiamenti del patrimonio culturale e urbano veneziano e sulla presenza di gruppi di interesse. Fra le sue precedenti pubblicazioni Venezia Nuova (1983), Spazio e Razzismo (1991), Beirut: guerre di quartiere e globalizzazione (2000).
Nella foto: Ca’ Loredan e Ca’ Farsetti sul Canal Grande, sedi del Municipio