Le escalation in corso in Ucraina e in Medio Oriente rischiano di deflagrare in un conflitto generalizzato e catastrofico. Da mesi assistiamo a violenze e distruzioni senza che emerga una soluzione politica e negoziale. La crisi degli organismi internazionali non vede lo sforzo per una loro democratizzazione ma, al contrario la logica della forza e la rimozione del diritto internazionale e dell’Onu.
La logica di guerra ha stravolto gli orientamenti delle forze politiche annichilendo un ruolo autonomo dell’Europa. Avanza un nuovo integralismo “occidentalista” che occulta e giustifica le gravissime responsabilità di Israele e avalla le spirali sempre più pericolose di escalation nel conflitto russo ucraino. La nuova “agenda Draghi” impone l’economia di guerra tagliando spesa sociale e rinviando l’impegno per la transizione verde in Europa.
L’emergenza della “sicurezza”, la logica della fortezza assediata ha rimosso le emergenze della crisi climatica, dei divari tra Nord e Sud, delle disuguaglianze, della trasformazione dei processi produttivi. La spinta alla guerra è il segno della crisi di un ordine, crisi della fase espansiva della globalizzazione, crisi del tentativo egemonico occidentale al collasso del Patto di Varsavia, crisi del modello energetico e produttivo basato sulle risorse fossili e il depredamento delle materie prime del sud del mondo. Abbiamo ormai molte prove del fatto che le sinistre moderate che hanno scelto di scommettere sulla prospettiva espansiva della globalizzazione e sull’effetto modernizzante delle ricette neoliberiste non sono parte della soluzione ma parte del problema, e l’assenza di una prospettiva differente allarga lo spazio delle destre.
La guerra è la nuova cifra della politica, dell’economia, della cultura. Dopo la pandemia le deboli e contraddittorie iniziative orientate a politiche promuovere una transizione verde e un consolidamento delle reti di solidarietà sociale sono state rapidamente archiviate. La guerra, la guerra, infinita e senza alternative è padrona del campo.
Trent’anni di guerre democratiche, preventive e unilateralismo non hanno prodotto un nuovo equilibrio, ma la permanenza della guerra senza fine. Lo sapevamo, l’avevamo detto inascoltati ma oggi ritorna l’illusione del ricorso allo strumento militare.
Le élite mondiali sembrano preda di una nuova rappresentazione paranoica che si compone di una affermazione ideologica e identitaria dell’Occidente e di una sindrome da accerchiamento. Fuori dalla fortezza ci sono solo nemici barbari o impazziti con i quali il conflitto non può che essere militare, e l’unica soluzione del conflitto non può che essere la Vittoria. La guerra non è più, nemmeno strumento per l’ipocrita “ingerenza umanitaria” o per la più concreta “difesa del nostro sistema di vita e di consumo”: è diventata una sfida esistenziale in cui in gioco è la sopravvivenza.
Cos’altro deve accadere perché le sinistre italiane e occidentali colgano il carattere strategico della guerra che definisce e riorganizza il contesto politico, economico e culturale? Cos’altro deve accadere perché si produca una mobilitazione all’altezza della sfida e del pericolo in corso? Il fatto che la sinistra nel suo complesso e le grandi organizzazioni sociali abbiano abdicato alla responsabilità di costruire ha anche inciso sulle dimensioni e, soprattutto, sulla qualità delle mobilitazioni contro la guerra lasciate troppo spesso a aree politiche marginali e arretrate.
Lo abbiamo denunciato in un appello inviato un mese fa ai dirigenti delle principali forze politiche e sociali firmato da oltre 4000 persone: è grave che, di fronte alla drammaticità dell’orrore in corso e alla pericolosità della escalation militare, non sia stata messa in campo nel nostro paese una mobilitazione sociale e un’iniziativa politica adeguata sia per dimensione che per qualità, equilibrio e articolazione delle proposte. Il mancato protagonismo delle grandi organizzazioni sociali e politiche che rappresentate ha limitato le dimensioni e la qualità della mobilitazione contro il massacro in atto impedendo che acquisissero dimensioni di massa e esponendole a rappresentazioni liquidatorie.
Non basta ribadire le ragioni contro la guerra ma è necessario ricostruire una proposta politica e culturale di alternativa alla guerra e alla militarizzazione dei conflitti.
In molti, in vista delle scorse elezioni europee chiedemmo di costruire un’iniziativa e una proposta politica che mettesse al centro l’alternativa tra pace e guerra, non per farne un richiamo elettorale ma per costruire convergenze tra forze diverse e mettere in relazione esperienze sociali e politiche.
Il voto in ordine sparso su Von der Leyen e il suo programma politico e sull’autorizzazione di armi contro il territorio russo rivelano la subalternità delle sinistre europee. Ma questo scenario sconsolante non doveva essere alibi per rimuovere la necessità di una proposta politica chiara, anzi avrebbe richiesto un di più di soggettività, lo sforzo per proporre un’ipotesi di uscita dal quadro di frammentazione e confusione che segna le forze di alternativa in Europa. Il fatto che un’alleanza elettorale elegga persone che andranno in gruppi parlamentari diversi, che implicano diverse proposte politiche, ma anche differenti scelte di schieramento istituzionale e su questioni cruciali, non è un fatto marginale. Questa articolazione può essere un segnale della debolezza insita in questa alleanza e nel rapporto con le personalità politiche elette o può divenire un’opportunità. Ma perché ciò avvenga è necessario un di più di soggettività, di proposta e analisi condivisa. Non si tratta di dire che, in fondo, tutti i gruppi sono plurali e in crisi e dunque si tratta di appartenenze “deboli”. Il fatto che questi gruppi siano in crisi e attraversati da fratture radicali non è una consolazione ma un elemento di maggior preoccupazione. Non si può far discendere la propria identità dal gruppo in cui ci si colloca, ma è necessario costruire una proposta che faccia avanzare anche la discussione in corso nelle diverse sinistre e nelle forze ecologiste e antiliberiste europee. Ma, appunto, servirebbe un di più di autonomia politica della sinistra. Intesa non come riferimento identitario ma come risorsa per promuovere, stimolare e qualificare aggregazioni più ampie. Altrimenti la stessa diatriba attorno alla partecipazione o meno a campi larghi o stretti si riduce a politicismo poco comprensibile ai più.
Oggi Sinistra Italiana è, obiettivamente, un punto di riferimento e un soggetto importante in questa riflessione. Proprio il risultato elettorale rende più credibile e necessario di ieri svolgere un ruolo e consegna la responsabilità di rispondere a domande nuove.
In Parlamento Sinistra Italiana ha assunto posizioni corrette ma questo non basta se non si fa di queste il punto di partenza per un’iniziativa politica nel rapporto con gli altri partiti, ma soprattutto nella società.
Mettere al centro l’alternativa tra pace e guerra è non solo un’urgenza epocale ma è anche un’indicazione ineludibile per ridefinire un ruolo della sinistra non testimoniale o parassitario.
Non c’è la possibilità di fermarsi a pensare, è necessario ricostruire un pensiero stando nell’urgenza del fare, è necessario ricostruire una riflessione non episodica avendo la capacità di ascoltare quello che emerge nella società e avere la capacità di mettersi in relazione con essa. Trasformare l’orrore per la guerra, la frustrazione, la paura, l’incertezza in relazioni, in alternative condivise. Per questo nella giornata della mobilitazione contro il massacro in Palestina abbiamo costruito un’occasione di riflessione e confronto sulla guerra a cui abbiamo invitato, non a caso tre donne – Ida Dominjanni, francesca Fornario e Pasqualina Napoletano- per ragionare su come la guerra abbia stravolto il pensiero, le parole e la politica e come sia necessario ricostruire pensiero, parole e politica come alternativa alla guerra.
L’autore: Animatore di maschile plurale, Stefano Ciccone fa parte del gruppo dirigente di Sinistra italiana ed è docente dell’Università degli Studi di Roma “Tor Vergata”