In occasione dell’uscita nelle sale del docufilm Dahomey di Mati Diop pubblichiamo l’approfondito articolo di Maria Pia Guermandi sugli effetti del colonialismo in Africa, da Left aprile 2024.
Ben poca risonanza ha avuto, sulla nostra stampa mainstream la vittoria alla Berlinale 2024 da parte di Dahomey, il film documentario di Mati Diop sulla recente restituzione di 26 opere d’arte saccheggiate dai francesi nell’omonima colonia alla fine del XIX secolo.
Difficile, del resto, che tematiche come quelle trattate nel lungometraggio di Diop risultassero appetibili ad una informazione come la nostra da sempre caratterizzata da una pervicace e generalizzata afasia sul nostro e l’altrui passato coloniale. Eppure l’attuale revival, sebbene velleitario e a tratti farsesco, di talune posture neocoloniali nel cosiddetto piano Mattei dovrebbe per lo meno sollecitarci ad approfondire un tema – quello del colonialismo europeo in Africa – che è radice ineludibile degli equilibri geopolitici di oggi e di domani.
È questo, d’altronde, l’obiettivo del lungometraggio francese, che unisce una prima parte di finzione onirica ad una seconda prettamente documentaristica e in cui gli oggetti di un tesoro artistico del passato sono l’innesco per raccontare le ambiguità e le incertezze del presente. Dahomey era la denominazione di un antico regno dell’Africa subsahariana occidentale, presente, come risulta dalle fonti, almeno dal XVII secolo e la cui ricchezza fu dovuta anche al commercio degli schiavi. La penetrazione coloniale francese, avviata fin dai primi decenni del XIX secolo, fu poi sancita nella Conferenza di Berlino del 1884-1885, durante la quale le principali potenze europee si spartirono a tavolino i territori africani, come se il continente fosse di fatto terra nullius. Fu il così detto struggle for Africa, ultima fase del colonialismo moderno europeo, caratterizzata da massacri generalizzati e dal primo genocidio del ’900, quello delle popolazioni Herero e Nama, nell’odierna Namibia, ad opera dell’esercito tedesco.
Esito collaterale delle aggressioni militari europee nel continente africano divennero i reiterati saccheggi del patrimonio culturale, considerato dalle truppe coloniali quale preda di guerra risarcitoria e che andrà ad arricchire sia i musei che, per molti decenni e ancora oggi, il commercio occidentale d’arte.
Le decine e decine di migliaia di oggetti – cerimoniali, d’uso comune, religioso, artistici – sottratti a popolazioni che si credevano – si volevano – in via d’estinzione, una volta esposte nei musei etnografici occidentali divennero, fra l’altro, elemento d’ispirazione straordinario per le avanguardie artistiche del primo Novecento.
Appena riacquistata l’indipendenza politica nella seconda metà del secolo scorso, le ex colonie africane hanno reiteratamente richiesto la restituzione o repatriation del proprio patrimonio culturale. Il rifiuto contrapposto, per decenni, da parte di musei e governi occidentali all’unisono è stato giustificato soprattutto con la mancanza di adeguate strutture di conservazione e ricerca nei Paesi africani, che si è quindi continuato a considerare incapaci di prendersi cura di quegli stessi oggetti che avevano prodotto. Sorvolando sul fatto che le condizioni di difficoltà e di carenza di infrastrutture culturali dei territori subsahariani fossero, per l’appunto, la conseguenza di decenni di sfruttamento e spoliazione coloniale.
Nel novembre 2017, il presidente francese Macron, in un passaggio di un discorso ufficiale tenuto all’Università di Ouagadougou in Burkina Faso, annunciò la sua intenzione di restituire – temporaneamente o definitivamente – il patrimonio culturale sottratto in epoca coloniale presente nei musei pubblici francesi nel giro dei successivi 5 anni. Il discorso di Macron, nel suo insieme, era pienamente ascrivibile ad un orizzonte ancora pienamente neocoloniale (aiuti economici, tecnologici, infrastrutturali a sancire un ruolo esclusivo di “protezione” geopolitica del Paese africano da parte della ex madrepatria), ma l’inaspettata apertura sul fronte delle restituzioni culturali ebbe immediata risonanza mediatica, tanto più che il presidente francese commissionò immediatamente a due noti intellettuali – l’economista senegalese Felwine Sarr e la storica dell’arte francese Bénédicte Savoy – uno studio che analizzasse il problema e proponesse linee guida utili a superare, fra l’altro, l’ostacolo legale dell’inalienabilità del patrimonio pubblico propria del sistema giuridico francese come di molti Paesi europei, Italia compresa. Il report fu presentato l’anno successivo, nel novembre 2018, e, pur con qualche limite, rappresentò un decisivo punto di svolta nelle politiche patrimoniali sui materiali provenienti da contesto coloniale. Nel rapporto Sarr-Savoy si ribadiva, senza incertezze, la necessità etica, prima ancora che giuridica, di restituire quanto sottratto durante il dominio coloniale, senza limitazioni temporali. Il documento riconosceva pienamente – e per la prima volta in un testo dotato di tale autorevolezza politica – la gravità della ferita inferta alle popolazioni africane dalla sottrazione di un patrimonio vitale per innescare quei processi di identità e costruzione della memoria collettiva fondamentali perché una comunità si riconosca come tale. Non solo, nella loro disamina, i due studiosi sottolinearono come fosse ormai necessario, da parte delle istituzioni occidentali, abbandonare quella presunzione di superiorità culturale nell’uso e gestione del patrimonio, riconoscendo la validità di altre e diverse tradizioni culturali e superando, ad esempio, il totem di una musealizzazione e conservazione in aeterno come unico e possibile approccio all’uso del patrimonio.
Il report Sarr-Savoy scatenó discussioni a dir poco animate nel mondo museale europeo e ad un più ampio livello politico, ma a distanza di oltre un lustro, è oggi considerato uno degli elementi decisivi per la riattivazione, su base più sistematica ed operativa, del processo di repatriation.
A tre anni da quel documento e dopo aver varato una legge apposita, la Francia restituì alla Repubblica del Benin, erede dell’antico regno africano, quello che doveva essere un primo lotto di materiali coloniali. Le 26 opere – statue di sovrani teriomorfe, troni di legno, oggetti per il culto – accolte ufficialmente a Cotonou, la capitale, nel novembre 2021 erano state sottratte nel 1892 durante il saccheggio del Palazzo reale di Abomey da parte delle truppe francesi.
Il racconto narrato in Dahomey si riferisce a quell’episodio che nella propaganda mediatica francese divenne l’esempio della volontà e affidabilità francese, ma che la regista franco senegalese Mati Diop nella conferenza stampa di presentazione del film a Berlino, ha definito, al contrario, come umiliante, considerata l’esiguità quantitativa del materiale sinora restituito a fronte delle molte migliaia di oggetti sottratti nel saccheggio e durante il dominio coloniale.
Nella prima parte dell’opera è una delle statue restituite, quella che si presume raffigurare Gezo, uno dei re del Dahomey, a prendere la parola, nell’antica lingua Fon, e raccontare il ritorno dai depositi del Musée du quai Branly, il costoso e patinato riallestimento delle collezioni etnografiche francesi – per la maggior parte di contesto coloniale – voluto da Jacques Chirac e inaugurato nel 2006 come testimonianza della grandeur museale francese, ma ben presto divenuto oggetto di violente critiche in senso decoloniale. Dopo le scene che illustrano le fasi della cerimonia ufficiale svoltasi a Cotonou con le più alte autorità del Benin, Dahomey riprende la discussione organizzata dalla stessa regista nell’Università di Abomey-Calavi a commento di quell’evento. Sono proprio i giovani, cioè quella generazione che non ha avuto nessuna possibilità di confrontarsi con quel patrimonio culturale ora restituito e che oggi, come rimarcano gli stessi studenti, si esprimono nella lingua degli ex colonizzatori, ad interrogarsi sul significato di quel ritorno e sulle molte ambiguità politiche che disvela.
È un dibattito acceso e in cui le posizioni espresse sono estremamente divergenti, fra chi ritiene che quella restituzione potrà ricucire ferite e aprire una nuova fase e chi vede prevalere le ragioni della propaganda politica (francese e interna) e il pericolo di un uso elitario del patrimonio stesso. La vera risposta che ne emerge è la sottolineatura della complessità di una vicenda, quella di un presente postcoloniale in cui le lacerazioni del passato continuano ad agire, ma con una nuova consapevolezza.
A confermare come il processo di repatriation sia tuttora vissuto molto problematicamente anche dalle ex potenze coloniali è d’altro canto giunto il nuovo report commissionato da Macron all’ex direttore del Louvre, Jean-Luc Martinez, proprio in occasione del ritorno delle opere del Benin. In questo nuovo documento consegnato nell’aprile 2023, l’atteggiamento di apertura e disponibilità a quella che nel report Sarr-Savoy era stata definita una nuova “etica relazionale” con le ex colonie subsahariane, è profondamente mutato e, al contrario, sono i paletti invalicabili di un quadro giuridico di concezione eurocentrica a fissare un nuovo, asfittico perimetro di manovra. Le opere potenzialmente restituibili sono così ora drasticamente ridotte nel numero e la repatriation è vincolata ad accordi di “collaborazione” – fra istituzioni francesi e istituzioni africane – dallo sgradevole sentore neocoloniale, in cui cioè si dà per scontato che la trasmissione di competenze e di saperi sia a senso unico. E non negoziabile.
La diffidenza e lo spaesamento che Mati Diop fa esprimere a Gezo, la statua parlante, sono più che giustificati dunque dal perdurante atteggiamento di molte istituzioni occidentali nei confronti delle restituzioni, ispirato ad una perdurante pretesa di superiorità scientifica che rende ragione delle inerzie e della mancanza di trasparenza sulla grande maggioranza dei dati relativi alle modalità di acquisizione delle opere da contesto coloniale.
Ma anche laddove, come nella vicenda di repatriation narrata in Dahomey, qualcosa si muove, più che fondato è il sospetto di un uso del patrimonio culturale puramente strumentale alle persistenti ingerenze economico-politiche verso Paesi che sempre più spesso dimostrano la propria insofferenza verso quella stagione postcoloniale della cooperazione allo sviluppo quasi subito degradata nell’inefficacia e nella corruzione, come esemplarmente dimostrato dal così detto “sistema Françafrique”.
Viene allora da pensare, come affermato dagli studiosi decoloniali più radicali – da Ariella Aïsha Azoulay a Françoise Vergès – che le istituzioni culturali occidentali, e il museo in primis, siano – geneticamente – irriformabili ed impermeabili a qualsiasi operazione di decolonizzazione, repatriation compresa, non puramente cosmetica o tokenistica. E che i recentissimi musei di cui negli ultimi anni si sono dotati molti Paesi africani, si limitino a replicare, in una mimesi acritica, quegli obiettivi nazionalistici e di consolidamento dello status quo sociale che costituiscono il dna del museo moderno occidentale. È il sospetto che aleggia nelle ultime immagini del film dedicate al nuovo Museo dell’Epopea delle Amazzoni e dei Re di Dahomey del Benin destinato ad accogliere le 26 opere restituite e le molte altre in attesa di repatriation. Dahomey ha il pregio prezioso di ricordarci come il patrimonio culturale, in quanto pratica sociale, sia profondamente politico e sempre contemporaneo, anche se incarnato da opere del passato, in quanto le interpreta attraverso le aspirazioni, le idee, le contraddizioni di oggi.
Da italiana sommersa dalle retoriche governative sulla “superpotenza culturale globale” non posso che guardare con invidia a quella discussione così appassionata degli studenti beninesi per i quali quelle statue e oggetti sono al contrario materia viva su cui costruire un presente e un futuro diversi.
Di fronte alla povertà concettuale della nostrana e prevalente concezione mercantil-turistica di patrimonio culturale, ben si comprende come un quotidiano come Il Sole 24 ore del 24 febbraio 2024 abbia potuto scrivere che Dahomey è stato «premiato troppo generosamente».
Un giudizio che trova ragione in quella persistente inconsapevolezza della storia coloniale e sulle sue conseguenze contemporanee che ci condanna su posizioni di arretratezza civile ormai inaccettabili. Come giustificare che nell’anno di grazia 2024, in uno dei principali musei statali – quello di Villa Giulia – in una didascalia di reperti in esposizione, un frammento di antefissa che raffigura la testa di un africano, sia definito, prima in italiano e poi in inglese, “testa di n…”?
(articolo pubblicato su Left 4/2024)
L’autrice: Maria Pia Guermandi è archeologa ed è responsabile dell’Osservatorio beni e istituti culturali della Regione Emilia Romagna. Tra le sue pubblicazioni, Decolonizzare il patrimonio (Castelvecchi)
Dahomey nelle sale e un incontro a Roma
Il docufilm di Mati Diop è in programmazione oggi, 13 novembre, in 9 sale: in Toscana (Firenze, Flora Atelier), Emilia Romagna (Bologna, Lumiere, sala Cervi), Lazio (Roma, Greenwich, Mignon, Giulio Cesare), Piemonte (Torino, Massimo Nc), Lombardia (Milano, Anteo Palazzo del cinema), Liguria (Genova, Circuito Cinema). A Roma, in occasione della proiezione del film al cinema Giulio Cesare, oggi alle 20.30 Focus on appropriazione culturale, autodeterminazione e restituzione delle opere d’arte. Partecipano Igiaba Scego, scrittrice e ricercatrice, Andrea Viliani, direttore del Museo delle civiltà, Rosa Anna Di Lella, curatrice Collezioni dell’ex Museo Coloniale, Gaia Delpino, curatrice Collezioni di arti e culture africane e dell’ex Museo coloniale, Matteo Lucchetti, curatore Collezioni arti e culture Contemporanee