Le dichiarazioni della ministra Santanchè a proposito delle sue dimissioni, del suo rinvio a giudizio, dei suoi compagni di partito che non la difendono e dei suoi alleati...

«Chi se ne frega». Daniela Santanchè piace molto ai suoi elettori perché è la donna più simile al prototipo di maschio che piace da quelle parti. «Chi se ne frega», dice ai giornalisti che le chiedono delle sue dimissioni, del suo rinvio a giudizio, dei suoi compagni di partito che non la difendono e dei suoi alleati che non la vorrebbero più incrociare al Consiglio dei ministri.

«Chi se ne frega», dice Santanchè ripetendo la solita litania di un rinvio a giudizio che «non ha nulla a che vedere con le mie funzioni di ministro», spiega. Eppure, andare a processo per truffa allo Stato che si governa dovrebbe essere qualcosa che ha a che vedere con l’etica politica, ancora di più se si fa parte dell’esecutivo.

Quel «Chi se ne frega» è uno strale lanciato in faccia al piglio deciso sempre vantato dalla presidente del Consiglio Giorgia Meloni. Meloni che in quattro e quattr’otto ha lasciato il padre di sua figlia con un messaggio sui social, Meloni che con una mano ha apparecchiato le navi per le deportazioni in Albania, Meloni che nel tempo di un cambio d’abito si è svegliata una mattina super atlantista e quasi europeista. Quella Meloni è incagliata sulla sua ministra del Turismo.

I suoi elettori si chiedono cosa la blocchi. Santanchè usa l’amico La Russa come scudo. E poi c’è il garantismo, quel garantismo che nella compagine di governo storicamente è stato usato come impunità per coprire di tutto. Se tutto è garantismo, allora ognuno è garantito, anche se ha mentito al Parlamento, anche per un rinvio a giudizio così pesante. «Chi se ne frega», appunto.

Buon martedì.

Nella foto: frame del video fb della ministra Santanché nel tour Vespucci, Gedda, 27 gennaio 2025