Ci sono scelte e istanti in cui l’ambiguità si sveste da strategia e diventa complicità. Quando venti Paesi dell’Unione europea decidono di firmare una dichiarazione di condanna contro il divieto costituzionale del Pride imposto dal governo ungherese e l’Italia si chiama fuori, quel momento è arrivato. Giorgia Meloni, assente anche stavolta, ha fatto più rumore con la sua firma mancata che con mille discorsi sulla libertà.
Budapest ha iscritto il bando del Pride nella Costituzione, ha proibito ogni riferimento all’esistenza della comunità LGBTQ+ nelle scuole, e continua a invocare la “protezione dei minori” come scudo per normalizzare la censura. Sono gli stessi argomenti che circolano nei corridoi della destra italiana, dietro proposte di legge ammiccanti e nei discorsi pronunciati con il tono compiaciuto di chi pensa di interpretare il “sentire comune”.
Nel silenzio della Commissione europea, che una volta parlava di valori, oggi si muove almeno Berlino, che minaccia di usare “la linea dura” contro i sabotatori di ogni decisione condivisa. Ma il vero allarme è l’Italia, Paese fondatore dell’Unione, che ha smesso di essere garante dei diritti per diventare garante delle omertà.
Lo scivolamento è lento ma non sarà indolore. Quando i diritti vengono vietati per legge si è già con un piede nell’abisso. L’Italia puzza sempre di più di decreti e manganelli. È così che si finisce a braccetto con quelli come Orbán: per codardia o per affinità. E le due cose, nel tempo, si confondono.
Buon mercoledì.
Una foto del Pride a Budapest nel 2017, foto wikipedia commons




